I birmani, che da secoli dominano parecchie regioni dell’Unione del Myanmar (denominazione ufficiale di quella che comunemente è detta Birmania), lo chiamano Stato del Rakhine. Ma è il nome originario di Arakan a far tremare oggi i lontani, eppure ancora orgogliosi, eredi di quell’armata che a metà del Settecento mise a ferro e fuoco villaggi e templi buddisti. È infatti qui che un esercito chiamato Arakan Army ha ripreso – il 6 febbraio, dopo ben due secoli e mezzo – il pieno controllo dell’ex capitale Mrauk U, testimone dell’antico potere e di una fede incrollabile nel Buddha. In coincidenza più o meno col terzo anniversario dal golpe (vedi qui).
Vediamolo in azione sul campo di battaglia questo esercito, circondato dal paradiso tropicale. Come ogni gruppo guerrigliero che si rispetti, scompare e ricompare all’improvviso tra villaggi di legno, foreste e coltivazioni, dove attacca di continuo uomini e postazioni dell’esercito regolare birmano, che, fino a pochi giorni fa, aveva bombardato dall’aria e sparato con le motovedette dai fiumi contro i villaggi. Ogni casa è stata teatro di crudeli rappresaglie contro gli abitanti sospettati, quasi sempre a ragione, di sostenere i ribelli indipendentisti. Tutto questo fino al giorno del misterioso incidente o tragedia del quale stiamo per parlare.
L’Arakan è bagnato dall’Oceano indiano, oltre che da vasti corsi d’acqua navigabili, dove presso un piccolo villaggio, Ah Pauk Wa, si è consumata quella che alcuni media, senza portare prove, definiscono una strage. La data dell’evento varia, secondo le scarne fonti disponibili – l’8 o l’11 febbraio –, quando circola la notizia che due navi fluviali e un ferryboat stracolmi di soldati, ufficiali e rispettive famiglie con bambini, in fuga verso la capitale dell’Arakan Sittwe – ancora in mano ai loro comandi –, sono stati attaccati da pattuglie dell’Arakan Army, giunte sul fiume Kaladan a quanto sembra con motovedette lanciarazzi. Volevano bloccarli e impedir loro di ricompattarsi più a valle; ma sulla dinamica è per ora confermato solo l’inabissamento dei natanti a causa dei colpi sparati (o delle bombe lanciate, secondo altre versioni), mentre resta misteriosa la sorte dei passeggeri. Si fanno molte ipotesi, ci sono versioni ufficiali che li vorrebbero prigionieri. Secondo notizie non verificate di stampa, la strage, seguita a una inquietante sequenza di eventi, sarebbe iniziata dopo che l’Arakan Army (stando a una versione) aveva dato tre avvertimenti inascoltati di innalzare bandiera bianca, mentre dal ferry qualche soldato avrebbe cominciato a sparare. Resta l’enormità della denuncia – al momento inverificabile – proveniente da alcuni siti di news locali, secondo i quali le vittime sarebbero state tra le settecento e le novecento, con una grossa percentuale di minorenni.
Vediamo, per prima cosa, come hanno “sacralizzato” il proprio odio i contendenti alla guida dell’Arakan. Al Buddha si affidano – nelle pause della guerra e, in azione, per superare la paura – sia i soldati birmani sia i militanti dell’Arakan Army, attribuendogli, ciascuno a modo suo e col consiglio di monaci dalle parziali interpretazioni dottrinarie, una sorta di ruolo da dio guerriero. Sono Buddha e la sua legge, il cosiddetto dharma, a proteggere il sangha, cioè la “propria” gente e la “propria” nazione, mediante un’identica fede. “Ma quando tutti evocano la giustizia del Buddha per lo stesso motivo, a chi dare ragione?”, ironizza U Gambira, l’ex monaco eroe della “rivoluzione zafferano”, cioè delle grandi manifestazioni che, nel 2007, posero la prima vera sfida al potere militare. Gambira non è il solo a criticare i legami di interesse dei grandi abati del suo ex ordine religioso con la giunta dittatoriale – per non parlare del “Bin Laden” buddista U Wiratu, autore di seguitissimi sermoni islamofobici online, considerati tra le cause delle prime persecuzioni ai Rohingya e della prima imbarazzante audizione di Mark Zuckerberg davanti al Senato statunitense, dove si è dovuto scusare per non aver impedito milioni di messaggi di odio lanciati in rete contro i musulmani.
“Credo che sia arrivata per i tatmadaw (nome delle forze armate birmane, ndr) l’ora del redde rationem”, ci ha detto Gambira che vive esule fin dai tempi del governo di Suu Kyi, già allora deluso nelle sue aspettative di vederla tenere testa ai generali. “Lady Suu sta pagando il prezzo dei suoi errori – spiega –, ma per i suoi e nostri aguzzini è giunto il momento di pagare il prezzo delle azioni passate, come prescrive la legge buddista del karma”. L’intera storia del Myanmar, tuttavia, è un confondere e invertire origine e risultati delle azioni di singoli e popoli: un po’ come avviene ovunque nel mondo, dove ci sono guerre per stabilire chi per primo abbia avuto ragione. Con queste premesse, è facile intuire il mal di testa di analisti e osservatori dei fatti internazionali, alla ricerca delle radici e dei rimedi per un conflitto armato che, nella forma di una guerra civile reale o latente, ha preso piede su oltre il 70% del territorio nazionale.
Ma torniamo al remoto angolo dell’Unione, sul non sempre placido Kaladan, lungo le cui rive è avvenuto, pochi giorni fa, l’episodio raccapricciante prima descritto. A far scappare – dall’ultima guarnigione del Rakhine sopravvissuta, Kyauktaw – le centinaia di soldati e familiari birmani era stata la rapidissima e straordinaria avanzata dell’Arakan Army, che pochi giorni prima aveva ripreso manu militari il simbolo del proprio antico regno di splendore, perso nel lontano 1784, la bellissima ex capitale Mrauk U. I fuggiaschi inabissati o prigionieri (secondo le diverse versioni) avevano abbandonato ogni cosa in fretta e furia, ma fino all’ultimo – secondo le accuse delle genti locali – hanno cercato di difendersi e chiedere mortali raid aerei di supporto, mentre rastrellavano e distruggevano un villaggio dietro l’altro per fermare la guerriglia.
Come dimostra l’assalto alle navi dei militari, a rendere sempre più temibile per l’esercito quest’ultima versione dell’Arakan Army, è la sua adesione a un cartello di gruppi armati delle minoranze etniche che, per la prima volta, hanno firmato un patto per cacciare i golpisti, nonché antichi invasori delle loro terre ancestrali. È l’alleanza antigolpista più forte da quando, settant’anni fa, cominciò la dittatura: ribelli ben addestrati e armati, che hanno alle spalle relazioni segrete, ma fortissime, con i cinesi dei quali parlano la lingua e conoscono i desideri. Prima di vedere chi sono quelli che ne fanno parte, oltre all’Arakan Army, cominciamo dagli altri gruppi di guerriglia, che si stanno coordinando sempre meglio nelle proprie distantissime aree di operazione.
Il più vicino all’Arakan è l’Esercito del popolo Chin, che rivendica l’omonimo Stato settentrionale confinante con l’India e – insieme all’Arakan Army – ha conquistato le cruciali città di Paletwa e Sami, mentre l’Arakan Army ha occupato da solo Maungdaw, principale città e distretto dove vivevano i Rohingya, semiabbandonato dall’esodo di massa di oltre sei anni fa verso il Bangladesh, sotto i colpi dell’artiglieria birmana. Il fatto che l’esercito birmano non abbia impedito all’Arakan Army una presa di possesso del territorio più off limits, dai tempi delle persecuzioni oggi sotto indagine all’Aia, è un mezzo mistero o un mezzo segnale che potrebbe trattarsi di un gioco delle parti in nome della comune fede. I nemici buddisti, che a nord si stanno uccidendo, a ovest fanno fronte comune pur di non far tornare i Rohingya ammassati oltre confine, negli ex villaggi distrutti.
Il nucleo resistente antigolpe più lontano, a sud, è il baluardo storico della resistenza antibirmana del popolo Karen, alla frontiera con la Thailandia. Ma è più a est il cuore della nuova grande e inedita offensiva, cominciata il 27 ottobre scorso, tre settimane dopo l’assalto di Hamas contro Israele. È stata la Cina, mentre il mondo volgeva lo sguardo ai guai dell’Occidente, a dare il via libera a quella già passata alla storia come “Operazione 1027”, destinata probabilmente a mutare per sempre l’assetto geopolitico del Paese e dell’intera regione, se Pechino deciderà di abbandonare i generali dei quali sono sempre stati fedeli alleati.
Per questo, prima di entrare nei dettagli finora noti circa l’oscuro incidente sul fiume, è importante collocare la presunta strage nel contesto di una fase letteralmente epica nella storia dei rapporti di forza tra tutti questi numerosi e popolati gruppi etnici versus i dominatori birmani, da sempre presenti in armi – e specialmente negli ultimi sette decenni di dittatura – su tutti i territori che formano oggi l’Unione del Myanmar.
L’affondamento delle navi è visto in Asia come la metafora occidentale del capitano Achab – alias il generale in capo Ming Aung Hlaing, sotto processo per genocidio – nell’ultima combattiva e inutile agonia. La resistenza, aggregata sotto la benedizione e supervisione non sempre apprezzata del “governo ombra” (noto come Nug), ha preso il nome di “Alleanza dei tre fratelli” (in sigla 3B) e sta acquisendo, grazie al comune odio per i dittatori, un potere militare e politico soverchiante. La legge sulla leva obbligatoria imposta dai generali è la risposta all’Operazione 1027, che sta galvanizzando la resistenza e demoralizzando le truppe regolari, e può rivelarsi un boomerang micidiale per i vertici militari. Con mossa disperata, i dittatori, a corto di reclute, impongono l’arruolamento agli uomini sotto i 34 anni e alle donne sotto i 26. Ma con l’odio delle nuove generazioni per chi ha infranto ogni sogno di futuro, la scelta è quasi imposta: gran parte dei candidati reclute vorrà scappare, con poche eccezioni, per andare ad arruolarsi nella giungla in uno dei tanti gruppi armati etnici, nei quali, dal golpe del 2021 in poi, sono confluiti ex studenti e dissidenti stanchi del pacifismo alla Gandhi della loro pur sempre amata icona Aung San Suu Kyi, detenuta da quell’alba del primo febbraio di tre anni fa.
Uno degli sbocchi per i neomilitanti è un training camp nello Stato Karen, o presso uno dei nuovi eroici gruppi della Fratellanza. Oltre all’Arakan Army, che recluta più di tutti gli altri messi assieme, ne fanno parte l’“Alleanza nazionale democratica del Myanmar” (o Mndaa), e i guerriglieri Ta’ang, che sognano da bravi indipendentisti un Kokang libero dall’esercito di Naypydaw e un futuro federale. Se prima si scontravano tra loro, ora i due “fratelli”, assieme all’Arakan Army più a ovest, giocano sul filo del rasoio una partita letale sotto l’occhio inquieto e vigile di Xi Jinping e dei suoi strateghi, alle prese con uno dei loro più intricati disegni da quando Sun Tzu scrisse, migliaia di anni fa, il celebre Arte della guerra, dedicato ai generali che servivano il celeste impero. Per Pechino abbattere o preservare il regime dei loro ex protetti dipende solo dalla loro capacità di controllare il territorio, e dunque gli interessi degli investitori cinesi. Da tempo, governo e grandi aziende hanno scommesso sul Myanmar come una nuova provincia della Cina, che già oggi provvede gas, pietre preziose, legname e un impagabile sbocco commerciale sull’Oceano indiano, ovvero a ridosso delle navi dei nemici di Delhi, che hanno in Myanmar altrettanti interessi economici e strategici.
Nel frattempo, dal giorno del golpe, accolto con apparente aplomb dagli informatissimi cinesi, la resistenza civile è passata dal piccolo boicottaggio dei business militari all’uccisione di spie e ufficiali, rendendo impossibile e rischioso il governo delle comuni pratiche quotidiane, come un certificato o un permesso di costruzione, in un clima di terrore che avvolge tutti, dal sindaco al governatore, fino al personale degli uffici pubblici, divenuti obiettivi delle varie “forze di difesa popolare”, addestrate dai guerriglieri delle minoranze etniche. A sua volta, ogni oppositore rischia un colpo dei cecchini o le torture in carcere, dove giacciono (con molti più disagi che nell’Ungheria della nostra Ilaria Salis) migliaia di giovani e meno giovani accusati di sovversione.
È in questa congiuntura che le vecchie certezze sulla saldezza dell’invincibile casta guerriera dei tatmadaw, addestrati come automi a servire i superiori, si stanno sfaldando, da quando è iniziata la controffensiva antigolpe, approvata da Pechino e a lungo attesa da tanti popoli. Si dice che ovunque, degni eredi dei loro re conquistatori, i generali birmani abbiano scelto di domare i sudditi conquistati con la forza e la brutalità, anziché con la gentilezza predicata dal Buddha e praticata con successo in gran parte dell’India dal celebre re Ashoka, due secoli dopo la morte del maestro. Il risultato, però, è che né il ferro né il fuoco dei villaggi rasi al suolo, dagli aerei e dai mortai dei tatmadaw, ha domato lo spirito ribelle di genti forzatamente rese proprietà dei birmani e spogliate di risorse e territori.
Ora che sanno di dover riversare le loro speranze di successo sulla Cina e i suoi finanziamenti per armare le 3B, sia i ribelli arakanesi sia gli Shan e i leader dell’opposizione, guidata metà dall’esilio, metà in clandestinità dal governo di unità Nug, sono divisi sulle promesse da fare a Pechino. Contrario a ogni patto, prima delle agognate elezioni libere, è un organismo importante – in sigla Nucc – che si occupa di sindacati, donne e servizi civili, per la futura società civile “federale” e multietnica profetizzata per il 2025. Esponenti importanti del Nug, che cura la politica estera, hanno però già dichiarato che, appena preso il potere e restaurata la democrazia, con la Cina sarà comunque business as usual. Non è uno scontro di poco conto, perché l’Unione o Alleanza mostra già vistose crepe nella casa che insieme si sta costruendo col sangue. Se prevalesse la tesi ortodossa del Nug, le coste, le ricchezze e le strade del nuovo Myanmar saranno ancora a disposizione di Pechino, com’è stato finora, purché aiuti i ribelli – come già sta facendo – a dare gli ultimi colpi agli agonizzanti generali. Inutile aspettarsi aiuti dall’Occidente, tranne qualche elemosina. Ai dittatori resta una quota ancora investita dal governo cinese nei vecchi affari, e un debole supporto militare dei cauti russi, già fornitori di gran parte dell’apparato bellico dittatoriale, ma decisi a non immischiarsi negli affari esteri dell’unico grande alleato di Putin contro l’Occidente. La Russia sembra perfino più ottimista della Cina sulla resilienza dei militari, e sta investendo in un reattore nucleare sperimentale vicino alle terre rare di cui è ricco parte del Myanmar.