C’è, e non da ora, molta insoddisfazione nei confronti del ruolo dello Stato. Non ci riferiamo al cosiddetto anarco-capitalismo (di cui il neopresidente argentino sarebbe un esponente), che è una sorta di utopia borghese di un mondo interamente governato dalle regole del mercato. Quella dello “Stato minimo” è una fantasia che il capitalismo non si è mai potuto permettere di coltivare veramente. Si pensi alla funzione svolta dal colonialismo da parte dei diversi Stati dell’Occidente nella formazione e nell’allargamento, a suo tempo, di un mercato mondiale; e, più di recente, alla costruzione di infrastrutture come le autostrade, magari a scapito delle ferrovie, nell’interesse dell’industria automobilistica (ne sappiamo qualcosa in Italia…), o nel ricorso agli “ammortizzatori sociali”, finanziati dal denaro pubblico, per tamponare le ricorrenti crisi. Non è mai esistito, neanche in ipotesi, un capitalismo che possa fare a meno dell’istituzione statale – sebbene questa non debba necessariamente declinarsi nella forma dello Stato-nazione, perché sono immaginabili, e in parte già concretamente operanti, istituzioni statali sovranazionali (come l’Unione europea), a cui sono demandate funzioni analoghe a quelle dello Stato-nazione.
Ciò a cui facciamo riferimento – e per qualsiasi sinistra, liberale o socialista che sia, resta una spina nel fianco – è il discredito che, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, si è riversato su qualsiasi progetto che preveda la possibilità di riprendere e rilanciare il famoso compromesso tra Stato e mercato, intorno a cui fu costruita quella economia mista (anche chiamata “neocapitalismo”) sottoposta poi a critica in nome della moda neoliberista delle privatizzazioni, seguita pedissequamente in Italia dai governi di centrosinistra degli anni Novanta. Proprio contro quest’ultima, si rivolse la riflessione di un economista e intellettuale impegnato come Salvatore Biasco, scomparso nel 2022. Biasco, a partire da alcuni seminari online, negli ultimi mesi di vita aveva prodotto un documento programmatico di rilievo circa la possibilità di un rilancio dell’intervento statale nell’economia e nell’organizzazione della società. Questo documento si può leggere oggi – insieme con i commenti di tredici studiosi amici di Biasco – in un volume edito da Castelvecchi, con il titolo Ripensare la cultura politica della sinistra, curato da Maurizio Franzini, da Enrica Morlicchio e dal sottoscritto.
Nel documento presentato nel libro, così come nei testi di commento, si prospetta un ritorno dello Stato nella vita sociale, soprattutto in considerazione della pandemia, che aveva mostrato a tutti (con l’eccezione di alcune frange tradizionalmente anarchiche o di tipo neoliberale, peraltro rapidamente egemonizzate dai nazional-populismi) come un forte bisogno di protezione potesse essere soddisfatto soltanto con il ricorso all’istituzione statale. Lo stesso Piano nazionale di ripresa e resilienza, finanziato dall’Unione europea, apriva di fatto la possibilità di una ripresa del discorso intorno al significato della funzione pubblica – sia nel senso degli investimenti di denaro, sia in quello della riorganizzazione complessiva di un sistema sanitario che aveva palesato gravi insufficienze.
Biasco riteneva che, nel mutato clima generale, si potesse mirare a una rifondazione della cultura politica della sinistra italiana su base neosocialdemocratica. Egli era perfettamente consapevole della difficoltà, oggi, di raddrizzare il senso – distorto ormai da decenni di neoliberismo e passato a significare pressoché il contrario di quello che significava un tempo – di un termine come quello di “riforma”. Tuttavia non si dava per vinto: con un atteggiamento non da consigliere del principe, ma da libero intellettuale che intendeva far circolare di nuovo nel dibattito pubblico ciò che era stato moneta corrente in partiti come quello comunista o socialista (almeno fino a un certo punto), puntava alla ricostruzione di un senso comune anzitutto prepolitico, che diventasse poi un humus da cui partire per coltivare, eventualmente, la pianta di un partito del socialismo democratico adeguato ai tempi.
L’accentuazione del momento dello Stato era del tutto in linea con questo suo disegno. Biasco sapeva (lo ricordava del resto in un volume di saggi e articoli che aveva pubblicato poche settimane prima della morte) che i socialismi possibili non si riducono alla forma dell’intervento statale. E anche nell’ultimo documento programmatico non sono trascurati gli aspetti legati all’associazionismo, al Terzo settore, all’odierno protagonismo della “società civile”. Ma è un fatto che la maggior parte della sua riflessione verteva sulla questione propriamente socialdemocratica di come lo Stato potesse svolgere – anche attraverso la necessaria riconsiderazione e riorganizzazione degli apparati amministrativi pubblici – un ruolo centrale non solo nella ridistribuzione del reddito mediante la leva fiscale, ma anche nella lotta alle diseguaglianze ancora prima che queste, in virtù delle differenze di reddito, si installino e si incancreniscano.
Certo, il nuovo welfare che aveva in mente Biasco era altra cosa da quello che, soprattutto in virtù del lungo predominio democristiano nella politica italiana, aveva prodotto cospicui fenomeni di clientelismo; oggi però non sarebbe neppure fuori luogo nutrire qualche nostalgia per quella che, con un termine giornalistico piuttosto improprio, si definisce Prima Repubblica. Ciò che andrebbe sottolineata è la necessità di un conflitto sociale su larga scala, che per un socialdemocratico o un socialista non può che essere la chiave di volta di qualsiasi politica. Ogni nuova formazione di senso comune, infatti, ha nel generale rimescolamento delle carte proposto dal conflitto sociale il suo terreno privilegiato di coltura. In questo senso, la spinta verso un mutamento dei rapporti di potere nella società, e quindi negli equilibri politici, sarebbe quel presupposto indispensabile che oggi manca e che invece, negli anni Sessanta e Settanta, nonostante tutto, fece la differenza.