A parole stiamo tutti dalla parte degli agricoltori. In questi giorni sono circolati, infatti, vari sondaggi che danno un consenso del 70% alle proteste dei trattori. Grafici sui quotidiani e servizi dei telegiornali rappresentano una cittadinanza che, pure “disturbata” dai blocchi stradali, esprime solidarietà nei confronti di coloro che lavorano la terra, e quindi ci danno da mangiare. La stessa rappresentazione si riflette sul teatrino della politica, con una destra che fa a gara per assicurarsi i consensi del variegato (e diviso) mondo della protesta agricola. Botta e risposta, in particolare tra la Lega di Salvini e i Fratelli d’Italia della presidente Meloni, che “capisce le proteste”, mentre il leader leghista giura che per il suo partito agricoltori e pescatori sono il cuore pulsante delle scelte economiche.
In politica, c’è sempre bisogno di un nemico e, guarda caso – in vista delle elezioni di giugno –, ancora una volta il bersaglio preferito dai sovranisti è l’Europa, che sarebbe la vera responsabile del conflitto in corso. Da questa situazione vessatoria se ne potrà uscire – per i partiti di governo – solo imboccando senza esitazioni la strada della “sovranità alimentare”, che, stravolgendo il concetto originario (la sovranità alimentare è infatti un’invenzione dei movimenti campesinos e ambientalisti contro la globalizzazione), rischia di tradursi da noi in sovranismo agricolo, una teoria molto più vicina ai retaggi dell’autarchia (oggi impossibile) che alla transizione verso una agricoltura veramente sostenibile.
Ma è chiaro che stanno (o stiamo, noi in quanto consumatori) tutti bluffando. La destra, infatti, non dice che l’Europa, molto prima della protesta nostrana dei trattori, ha già ritirato tutti i provvedimenti introdotti alla fine dello scorso anno per avviare un difficilissimo percorso di transizione (emissioni, uso di pesticidi e diserbanti vari, occupazione intensiva delle terre). Una decisione, quella di Bruxelles, che è stata sicuramente influenzata dalle lobby degli agricoltori, ma pensata e decisa nelle stanze delle multinazionali produttrici dei pesticidi.
Lega e Fratelli d’Italia non dicono, poi, che gli sgravi fiscali per i coltivatori erano stati varati molto prima del governo Meloni e che è stato proprio questo governo a cancellarli, nella disperata ricerca di risorse per le finanze pubbliche molto appesantite dall’introduzione della flat tax. E che ora le concessioni sull’Irpef alle fasce più “deboli” non sono misure creative, ma scaturiscono piuttosto dal solito vecchio schema del “carta vince-carta perde”. La destra, inoltre, non dice un’altra cosa molto importante, e che invece viene ribadita ogni tanto da qualche rappresentante del movimento dei trattori: le regole sui “disciplinari”, ovvero sull’uso di diserbanti e pesticidi, sono decise a livello nazionale. È insomma l’Italia (non l’Europa) che permette l’ingresso sui nostri mercati di prodotti agricoli trattati all’estero con prodotti chimici, quelli che i produttori agricoli italiani vivono come concorrenza sleale.
L’altra questione che si lascia prudentemente sullo sfondo riguarda la determinazione dei prezzi delle merci agricole. Ci si chiede come sia possibile che in Italia, così come in Francia, per produrre un litro di latte si paghino meno di 50 centesimi al produttore, mentre sugli scaffali del supermercato lo andiamo a pagare 2 euro (o più). Negli ultimi giorni, su questa questione, si sono lanciati tanti commentatori, visto che quando ci sono le questioni di attualità tutti tendiamo a diventare esperti. Dopo anni di assoluto silenzio sull’agricoltura, di abbandono dei campi e di ignoranza, ora siamo tutti grandi esperti di fitofarmaci, agronomia, colture intensive. Tra i vari commenti sul tema si è letto e sentito di tutto. C’è chi ha puntato il dito sulla grande distribuzione vista come la responsabile della lievitazione dei prezzi, senza una rispondenza equa con la giusta retribuzione del lavoro. C’è, invece, chi ha puntato il dito contro le logiche della pubblicità, che, per conquistare il consenso verso determinati prodotti, produrrebbero una bolla dei prezzi. Altri ancora, con più strumenti di analisi finanziaria, hanno puntato il dito accusatore contro le Borse mondiali responsabili, con il loro gioco dei “future” (si scommette sui prezzi futuri delle merci agricole), di fare lievitare i prezzi dai campi al mercato (meglio al supermercato). Sulle piazze finanziarie di Chicago, Londra, Mumbai, Parigi, i prezzi dei prodotti agricoli sono stabiliti nelle grandi Borse merci di riferimento. “A farla da padrone in questi istituti privati – leggiamo sulla rivista “Valori.it” (Banca Etica) – sono i grandi fondi finanziari, come per esempio nel mercato mondiale dei derivati del Chicago Mercantile Exchange sono Vanguard, BlackRock, JP. Morgan, State Street Corporation e Capital International Investitors”.
Per capire come stanno le cose, e decifrare il paradosso della nocciola o della ciliegia, sono sicuramente spunti utili, e ci fanno comprendere molto meglio il legame ormai inscindibile tra economia (anche del vecchio settore “primario”) e finanza speculativa. E sono sicuramente temi che andranno approfonditi e studiati per valutare lo stato attuale della globalizzazione. Ma ci sono anche segnali a noi più vicini. Per esempio, ci ha colpito il racconto di un piccolo imprenditore agricolo che ha spiegato il meccanismo perverso dei consorzi. La favola del “chilometro zero” è infatti per ora una favola, e funziona solo nei gruppi di acquisto che si stanno comunque diffondendo in modo esponenziale. Il piccolo produttore non vende la sua merce ai supermercati e non la immette automaticamente nella rete della grande distribuzione, né ha rapporti con il consumatore. Nella maggior parte dei casi, ci si affida al consorzio locale che, a sua volta, tratta le merci e le smista alla grande distribuzione.
Ma gli agricoltori raccontano anche il trucco. Quando si vende un certo quantitativo di merce agricola al consorzio, lo si fa alla cieca, senza una preventiva determinazione del prezzo. Saranno poi i consorzi stessi, che stanno diventando sempre più potenti in quanto intermediari, a decidere il prezzo dopo avere incassato i guadagni (i profitti) dalla Gdo, cioè della Grande distribuzione organizzata. Così il produttore si sente ingannato due volte: da una parte, dal “suo” consorzio, dall’altra, dall’arrivo degli stessi prodotti magari dalla Romania, con costi decisamente inferiori perché trattati con pesticidi più potenti. Ma noi consumatori di questi meccanismi perversi quasi non ce ne accorgiamo, perché è chiaro che tutti vogliamo mangiare sano; ma se un limone, una ciliegia, una nocciola o una mela sono “toccati” e brutti a vedersi li sceglieremmo sugli scaffali?