Che succede con il movimento dei trattori? L’Europa cede sui pesticidi e il governo italiano cerca affannosamente l’accordo? Hanno ragione gli agricoltori a protestare? Lo abbiamo chiesto a Camilla Laureti, europarlamentare del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e democratici al parlamento europeo, e responsabile Agricoltura del Pd.
Laureti, cominciamo dalle notizie sulla protesta degli agricoltori. La Commissione europea ha deciso di ritirare alcuni dei provvedimenti che erano stati decisi sulla transizione verde, in particolare le norma sui pesticidi e le emissioni di CO2. Il movimento dei trattori ha vinto?
Di fronte alla propaganda politica, che in queste ore monta in vista delle elezioni europee di giugno, dobbiamo ripristinare un po’ di verità dei fatti. Prima di tutto, è bene chiarire che la decisione di ritirare la norma sui pesticidi era stata già presa dal parlamento europeo, che dunque aveva già rinviato il tema della riforma sul regolamento dei fitosanitari alla prossima legislatura. Ma, oltre a questo, c’è un punto più generale. È chiaro che è in atto un tentativo di strumentalizzazione politica volto a individuare nel Green Deal l’origine di tutti i mali dell’agricoltura, quando questa strategia non ha ancora dispiegato i suoi effetti. Non solo l’Europa viene tirata in ballo a sproposito, ma ci si distrae dal vero problema del settore: il reddito degli agricoltori e il costo della produzione di cibo. Così perdiamo tutti: la politica, gli agricoltori, i consumatori.
Il “manifesto” del 7 febbraio ha titolato in prima pagina “L’erba cattiva”, con la foto della presidente von der Leyen che pianta un piccolo arbusto. Siamo di fronte alla scelta dell’economia tradizionale inquinante contro uno sviluppo sostenibile?
Siamo di fronte, come dicevo, a una strumentalizzazione elettorale: le destre, sovraniste e popolari, alimentano l’idea che esista uno scontro fra ambiente e agricoltura, che la causa di ogni male sia la strategia comunitaria farm to fork, che declina il Green Deal nel settore agricolo, che l’Unione sia, insomma, una matrigna. Tutte falsità. Sicuramente le parole della presidente von der Leyen, lasciando la linea del lavoro da lei stessa svolta in questi anni, contribuiscono ad alimentare questa strumentalizzazione.
Il governo italiano sembra in grande difficoltà e promette cose che potrebbero essere irrealizzabili, come un aumento pesante delle risorse del Pnrr a favore dell’agricoltura (da 5 a 8 miliardi) e il ritiro delle misure fiscali. La segretaria del Pd, Schlein, ha dichiarato che si tratta solo di propaganda. Come se ne uscirà? E se i soldi si troveranno, a scapito di chi?
Il governo, in questi mesi, ha approvato una serie di misure che danneggiano il settore. Abbiamo assistito alla reintroduzione dell’Irpef su redditi agrari e dominicali; al taglio delle agevolazioni per gli agricoltori under 40; alla introduzione di onerose assicurazioni obbligatorie; alla mancata compensazione di costi energetici in aumento. Noi, come opposizione, come Pd, lo avevamo detto da subito che la strada era sbagliata. Adesso il governo cerca di porre un rimedio. Non so bene come pensa di farlo, soprattutto sul piano della copertura economica da trovare per ognuna di queste marce indietro. Anche sul Pnrr, sulla cifra di 8 miliardi annunciata in queste ore dalla premier, voglio ricordare che era stata già anticipata dal ministro Lollobrigida qualche mese fa. Sembra il gioco delle tre carte, gli agricoltori lo sanno e sono anche queste le ragioni che li spingono in piazza.
All’interno dei movimenti alternativi per una agricoltura diversa e sostenibile c’è chi critica le soluzioni che si prospettano, perché si premierebbero di nuovo solo le aziende agricole più grandi proprietarie delle maggiori estensioni di terra e dei capitali per la meccanizzazione del lavoro dei campi. È un’obiezione sensata?
Secondo me è un punto di vista fondato. La Pac rappresenta un terzo del bilancio comunitario. Investimenti importanti. Ma la Pac va riformata, perché finisce col favorire l’agricoltura dei grandi produttori. E invece il suo obiettivo deve essere sostenere in particolare i piccoli e medi agricoltori, quelli che scelgono l’innovazione tecnologico-scientifica, che favorisce la transizione; quelli che decidono di investire nel ricambio generazionale e di genere per aprire l’agricoltura alla sostenibilità e alle forme multifunzionali. Ci vogliono misure più decise per l’accesso alla terra e al credito, perché giovani e donne possano iniziare nuove attività agricole, possano dare tutto il loro contributo a un pezzo essenziale della cultura e del territorio del nostro Paese.
Più in generale, come si può descrivere il settore dell’agricoltura oggi? Dal periodo in cui si chiamava “primario”, si era passati a una sorta di oblio lento e quasi di irrilevanza. Oggi si riscopre invece la sua centralità in piena transizione digitale e tendenziale superamento del lavoro. Come si può definire l’agricoltura e il suo peso nelle economie globali?
Mi vengono in mente le parole di Carlin Petrini, una personalità e un pensiero con una grande influenza nel mondo. Primario – dice Petrini, riferendosi al cibo – è “prima di tutto il resto”, perché soddisfa il bisogno primario dell’essere umano, l’alimentazione. Ma ce ne siamo dimenticati. Nella realtà non è così: il cibo è stato ridotto a merce. E questo è un errore drammatico: perché il cibo ha certo un valore economico, ma, insieme, anche culturale, sociale, ambientale. Partire da questa prospettiva, e non può che essere la nostra, vuol dire cambiare le politiche agricole e alimentari che mettiamo in campo. Significa investire nell’educazione alimentare, soprattutto dei più giovani e fin dalla scuola; significa portare avanti campagne di informazione per una cittadinanza consapevole rispetto a ciò che acquista per alimentarsi, un elemento strategico anche per tutelare la salute e per la prevenzione; significa mettere veramente “al centro” il settore, restituirgli pienamente il suo carattere primario.
Quanto pesa lo sfruttamento del lavoro (composto buona parte da immigrati) nella guerra dei prezzi?
Il caporalato è una ferita ancora aperta: oggi prende la forma di uno sfruttamento del lavoro che si lega alla grande questione delle migrazioni. Quando diciamo che dobbiamo garantire cibo sano, nutriente e sostenibile per tutti, intendiamo proprio questo. Un cibo sostenibile sul piano ambientale e su quello sociale, con una produzione che rispetti i diritti dell’ambiente e di chi lavora nei campi. In questo senso, non dobbiamo avere paura anche di chiedere maggiori controlli e maggiore coerenza d’azione fra i soggetti chiamati a vigilare sul rispetto della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Molti degli agricoltori intervistati in questi giorni hanno lanciato un vero e proprio grido di allarme: nessuno è in grado di sostenere una competizione basata sulla gara a ribasso dei prezzi. Si produce, dicono, sempre in perdita. Ma allora chi ci guadagna? Quali sono i meccanismi che determinano i prezzi finali delle merci agricole?
Come ogni settore economico, anche in agricoltura la corsa al ribasso del prezzo significa un peggioramento della sicurezza del lavoro, della qualità del prodotto, della sostenibilità della produzione. Io credo che la situazione sia più complessa: se è vero che la logica che si impone è quella della corsa al ribasso, che danneggia l’agricoltore e anche il consumatore per la qualità del cibo finale, al tempo stesso è vero che il costo finale del cibo non è poi così basso. Anzi. Soprattutto a seguito dei cambiamenti climatici, dei fattori esterni, come guerra e inflazione energetica, attualmente il cibo costa e costa di più. Ma è un costo nascosto dalla filiera: i grandi supermercati guadagnano il 50% del prezzo finale al consumo; agli agricoltori, soprattutto piccoli e medi, va meno del 10%.
Infine tre domande che richiamano la prima. Lo sviluppo del settore è alternativo alla transizione ecologica? È possibile un’agricoltura sostenibile e giusta? È pensabile una battaglia della sinistra progressista per allargare il diritto a un cibo sano anche a fasce della popolazione che oggi ne sono escluse?
Su questo voglio essere chiara. La contrapposizione tra ambiente e agricoltura è fuori da questo tempo. Il futuro dell’agricoltura non solo non è alternativo alla transizione, ma dipende da essa. E viceversa. Pensiamoci: se distruggiamo le biodiversità, se non tuteliamo la fertilità dei campi, proteggendoli dallo sfruttamento intensivo che li depaupera, se non favoriamo la permanenza degli impollinatori l’agricoltura è destinata a vivere in futuro una condizione catastrofica, relativamente a quantità e qualità della produzione. Questo deve essere l’impegno, questa la grande occasione che le proteste di queste ore impongono alla politica. Serve un’azione corale, che parta dai problemi dell’emergenza, con misure immediate di compensazione, sino a investimenti in ricerca e innovazione, per arrivare alla dimensione internazionale, in cui è chiaro che dobbiamo fare di più per proteggere le nostre produzioni agricole. Su questo terreno, si gioca una delle battaglie più importanti delle forze progressiste: restituire centralità al settore, portarlo ad affrontare la transizione, assicurare la coesione. In questo un ruolo essenziale è ampliare la platea di chi ha accesso al cibo sano e sostenibile. Folle, in tempo in cui cibo è salute, non capire che passano anche da qui quei “divari di cittadinanza” che sono inaccettabili. Perché, a differenza di quanto pensa il ministro Lollobrigida, non è vero che chi vive difficoltà economiche mangi meglio.