Giovedì primo febbraio, nel corso della trasmissione televisiva “Piazzapulita”, Paolo Mieli ha lapidariamente affermato che i circa 26.000 morti, in buona parte civili, finora causati dall’attacco israeliano, aereo e terrestre, a Gaza, “sono sul conto di Hamas”. Non intendiamo discutere questo giudizio, né sul piano fattuale né su quello etico, ma fare qualche osservazione sul perché di questo attacco che dura ormai da quasi tre mesi. La parola “perché” ha un significato causale oppure uno finale: in altre parole, può indicare sia i motivi di un fatto o di un’azione, sia gli scopi di un’azione. La causa, poi, come ci insegnavano già gli storici antichi, può essere prossima o remota. Nel caso dei bombardamenti e delle azioni sul terreno condotti da Israele su Gaza, la prima delle due cause è evidente: l’attacco sanguinario di Hamas a vari kibbutz e villaggi israeliani il 7 ottobre scorso. Molto più complesso è individuare la causa remota, che ci costringerebbe a tornare almeno al 14 maggio 1948, cioè alla fondazione dello Stato di Israele. Lasciamola dunque da parte, per concentrarci sull’altro corno del dilemma: quali sono gli scopi di Israele nel condurre il suo attacco a Gaza, e nel continuare a condurlo?
Il premier israeliano Netanyahu ha dato da tempo una risposta: le azioni militari di Israele a Gaza continueranno “finché Hamas non sarà eliminata”. I rischi di una tale operazione sono evidenti per quanto riguarda la sorte degli ostaggi israeliani ancora prigionieri a Gaza, ma il governo del loro Paese di fatto antepone alla loro tutela l’obiettivo della cancellazione di Hamas. A questo punto, possiamo però domandarci se questo obiettivo sia effettivamente raggiungibile, e se lo sia con i mezzi utilizzati finora. La risposta in entrambi i casi è negativa.
Un’organizzazione come Hamas può essere distrutta, per così dire, mozzandole la testa o schiacciandone il corpo. Fuor di metafora (ci scusiamo per averne usata una così cruenta, ma ci pare efficace, e del resto è purtroppo in armonia con quanto sta accadendo), ciò significa che Hamas può essere definitivamente sconfitta o eliminandone i capi oppure tutti i suoi membri. La prima strategia sembra senz’altro alla portata di Israele e dei suoi servizi segreti: ricordiamo come, dopo la strage di Monaco del 1972, quando undici atleti israeliani rimasero uccisi in seguito al loro tentativo di sequestro da parte dei fedayn di “Settembre nero”, tutti gli organizzatori dell’azione terroristica furono eliminati dal Mossad negli anni seguenti (la storia è ben ricostruita, tra l’altro, nel film Munich di Spielberg). Oggi Israele non sembra però seguire la stessa strategia: a dispetto di alcune dichiarazioni in senso contrario, sembra che finora le azioni militari a Gaza non abbiano portato all’eliminazione di nessun leader importante di Hamas; e soprattutto i capi dell’organizzazione continuano a spostarsi tranquillamente, e neppure tanto di nascosto, da un Paese arabo all’altro. Quindi lo scopo di Israele non è quello di eliminare Hamas “dalla testa”.
Stando così le cose, sembrerebbe che la strategia scelta sia allora la seconda, cioè cancellare Hamas uccidendo tutti i suoi membri, che indubbiamente si trovano in grande maggioranza tra la popolazione di Gaza. Questa impresa è però alquanto difficile da attuare, a differenza della prima: infatti, non è facile operare selettivamente, cioè riuscire a individuare, tra gli abitanti di Gaza, chi è un terrorista di Hamas e chi no. Per essere sicuri di ottenere lo scopo desiderato, cioè l’eliminazione di Hamas “schiacciandone il corpo”, bisognerebbe uccidere tutta la popolazione di Gaza: ma questo ovviamente non sarebbe accettabile per l’intera opinione pubblica mondiale, e probabilmente neppure per la stessa opinione pubblica israeliana (e di certo rafforzerebbe l’accusa di genocidio di cui Israele è chiamato a rispondere davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia).
Proviamo a riassumere quanto detto fin qui: da un lato, Israele non vuole distruggere Hamas “dalla testa”; dall’altro, non può farlo “schiacciandone il corpo”. Dato che si può ritenere che il governo israeliano e in primis Netanyahu lo sappiano benissimo, la conclusione è che lo scopo della loro ininterrotta azione militare contro Gaza non è in realtà quella di schiacciare Hamas.
Quale può essere lo scopo autentico? A nostro avviso, la risposta è questa: convincere, o meglio costringere, la popolazione di Gaza a emigrare. Sul “Fatto quotidiano” (del 5/2/2024) Fabio Scuto scrive che, il 28 gennaio, si è tenuto a Gerusalemme un convegno, organizzato da alcune formazioni estremiste israeliane, ma al quale hanno partecipato anche esponenti governativi, sulle prospettive di un nuovo insediamento di coloni israeliani a Gaza e la conseguente espulsione della popolazione palestinese. Certo, questo scopo non sembra facilmente raggiungibile: è noto che l’Egitto non ha alcuna intenzione di accogliere gli oltre due milioni di palestinesi che si riverserebbero nel suo territorio. Ugualmente, non è pensabile che si possano trasferire in Cisgiordania, o tantomeno in Giordania, o in Libano, ecc. In Cisgiordania, i palestinesi sono già troppi, tanto per se stessi che, soprattutto, per i coloni israeliani; e troppi sono già negli altri due Paesi, dove spesso si trovano in situazioni di attrito con la popolazione locale.
Da un lato, però, la situazione potrebbe cambiare; dall’altro, una terza soluzione è stata adombrata. Potrebbe infatti cambiare l’atteggiamento dell’Egitto: da una corrispondenza di Marc Innaro dal Cairo al Gr1 di qualche settimana fa, abbiamo appreso che Stati Uniti e Unione europea sarebbero disposti a condonare all’Egitto il suo ingente debito estero in cambio dell’accoglimento di un grosso numero di profughi palestinesi (la notizia non è stata ripresa da nessun altro, a quanto risulta, ma è comunque controllabile; e Innaro è di solito un giornalista informato). Stando sempre a quanto detto da Innaro, l’Egitto ha respinto l’offerta: ma forse in futuro potrebbe cambiare idea, per esempio se Stati Uniti e Unione europea intervenissero in suo favore anche con altre misure. D’altra parte, nessuno, in Israele, può sentirsi al sicuro da altri attacchi terroristici di Hamas, anche se tutti gli abitanti di Gaza fossero trasferiti in Egitto. Hamas, per quanto decimata, potrebbe ricostituirsi (i nuovi adepti non le mancherebbero certamente), e quindi tornare a minacciare nuovamente lo Stato ebraico, con cui l’Egitto confina.
Pensiamo che anche tutto questo sia ben noto a chi auspica, più o meno palesemente, l’emigrazione dei palestinesi da Gaza. Di conseguenza, assume un certo significato l’ipotesi, avanzata qualche settimana fa da un esponente di destra entro il governo israeliano, di trasferirli in Congo, con il quale ci sarebbe già un accordo. Questa ipotesi è stata poi seccamente smentita, e forse non è attuabile in pratica (le difficoltà logistiche sono evidentemente enormi), ma alla luce di quanto si è osservato qui, non riteniamo che sia da liquidare come una boutade o poco più. Vedremo se il governo israeliano tenterà davvero di realizzare, se non questo, un programma del genere; e soprattutto vedremo come si comporterà, in questo caso, l’opinione pubblica mondiale. Qualunque sia la soluzione, però, pare abbastanza chiaro che il vero scopo delle azioni militari israeliane a Gaza sia quello d’indurre gli abitanti di quel martoriato territorio ad andarsene.