Nell’ampia e centralissima piazza circolare De Ferrari, dove un tempo vi fu il ritrovo serale della gioventù alternativa e gauchiste, da un anno si staglia un nuovo strumento di comunicazione di massa: sull’austero palazzo della società Italia è stata posta una sorta di “pelle” elettronica che lo ha trasformato in un maxischermo. Ne abbiamo già parlato su queste pagine a proposito della sfacciata celebrazione post mortem di Silvio Berlusconi, per giorni beatificato sui muri in veste di salvator mundi (vedi qui). In sé il dispositivo non ha nulla di particolarmente mirabolante o avveniristico: se ne sono visti per anni di simili in giro per le città europee, per lo più a fini pubblicitari, e in particolare a Milano, dove tra l’altro qualche anno fa il proliferare delle “facciate parlanti” provocò anche qualche polemica (avrebbero distratto gli automobilisti rendendo più facili gli incidenti), che indusse il comune a imporre delle restrizioni ai giganteschi video walls su cui proiettare spot.
Certo, però, ne è nuovo l’utilizzo politico, che a Genova è stato abbondantemente praticato dal presidente della Regione, Giovanni Toti. Uomo non nuovo alla dimestichezza con i meccanismi della comunicazione moderna, data la sua lunga attività nelle televisioni berlusconiane, Toti, dopo il suo avventuroso approdo in Liguria, ha utilizzato in maniera spregiudicata vari strumenti del marketing pubblicitario a fini di autopromozione, fino appunto al maxischermo centrale. E non si tratta solo dell’idea recente del video wall in pieno centro. La sua azione politica è stata accompagnata, promossa, in alcuni casi anticipata, da una continua campagna di marketing, che lo ha visto di volta in volta presente in ogni occasione che potesse dargli visibilità, fino alle manifestazioni più bizzarre, come avvenne nel 2018, quando la centrale via XX Settembre venne trasformata in una piscina da “Costa Entertainment”, e il sindaco Bucci, con il presidente della Regione, si produssero in una comica sguazzata nello scivolo ad acqua all’uopo allestito.
In molti casi, il marketing personale dei due si è intrecciato e sovrapposto al marketing pubblicitario per la città, come nelle grottesche uscite recenti, che celebravano il pesto genovese con un battello a forma di pesto e mortaio a spasso per il Tamigi, e altre simili iniziative di dubbio gusto. L’intreccio tra “pubblicità per se stessi” e marketing urbano in chiave turistica rappresenta però, per molti versi, una novità. Se il modello genovese di comunicazione politica e di marketing urbano vorrebbe richiamarsi a quello milanese – peraltro ben decostruito nel recente libro di Lucia Tozzi, L’invenzione di Milano (vedi qui) –, in realtà siamo di fronte a un modello comunicativo diverso non nel metodo ma nei contenuti, e potenzialmente autoritario.
Non si tratta unicamente di spettacolarizzazione e personalizzazione della politica, della pop politica, in cui la propaganda si confonde con le luci, i suoni e i colori della messinscena spettacolare; qui siamo di fronte a qualcosa di diverso anche dallo infotainment politico. L’accento ossessivamente messo sul personale è il frutto del meccanismo stesso di selezione delle élite politiche, nel cui reclutamento diviene decisivo il profilo mediatico del candidato. La presenza televisiva, la capacità comunicativa sui social, le doti relazionali e di coinvolgimento dei cittadini, sono da tempo divenuti i criteri di selezione. E certamente le basi culturali di quanto avviene in Liguria sono da rintracciarsi nel berlusconismo. Berlusconi ha commercializzato la politica con una disinvoltura e naturalezza fino ad allora sconosciute, senza neppure fingere che dietro il marketing vi fosse una politica “vera”. Ma qui all’idea della dissoluzione della politica tradizionale, si sovrappone quella di vendere l’immagine dell’“uomo solo al comando” insieme a quella della città e dell’intera regione, mediante una comunicazione aggressiva, grossolana e violenta, fatta di slogan e di immagini atte a catturare l’attenzione. Un disegno che assume tratti più o meno larvatamente autoritari, soprattutto se si pensa agli ingenti mezzi economici investiti nell’operazione.
Queste campagne politico-pubblicitarie tendono sostanzialmente a fare identificare i destini della città e della regione con quelli del politico di riferimento; al tempo stesso, alimentano culture politiche che scavano negativamente nel tessuto connettivo della società democratica, con la riduzione della sfera pubblica a mero mercato, e con buona pace della partecipazione politica, che viene di fatto azzerata. In fondo, se non al momento del voto, i cittadini non contano, dato che quello che importa è ridefinire le istituzioni: prima i loro significati, poi le loro concrete modalità organizzative. La fusione tra marketing e politica serve a ridisegnare la geometria dei loro rapporti: sul piano simbolico e delle prassi operative, affidandole a un capo che prenderà le decisioni che riterrà valide. L’uso spregiudicato del sistema dei media finisce, dunque, per ostacolare, o quanto meno per non favorire, l’acquisizione di esperienze comuni con tutti gli altri membri della collettività politica, operando nel senso di una de-politicizzazione.
È un’altra Italia quella che rischia di prendere forma attraverso queste operazioni di accentramento dei poteri per via mediatica, in cui viene completamente a cadere l’ideale liberale della funzione educativa di un sistema di comunicazione basato sull’interazione tra idee, informazioni e fonti diverse tra loro. L’unica consolazione, in un simile contesto, è che a Genova, contrariamente a quanto avvenuto a Milano, i risultati economici di questo ipertrofico e personalizzato modello comunicativo per ora non si vedono. A Milano il marketing aggressivo del brand della città, con tutti i limiti e le conseguenze negative che ne sono stati evidenziati, ha comunque prodotto ritorni, sia pure rimasti nelle tasche delle élite. A Genova si sono viste, finora, solo chiacchiere e immagini discutibili, ma non è mutata la condizione di una città in crisi spaventosa, invecchiata e impoverita. Così forse, nonostante tutto il battage pubblicitario che circonda le figure dei due piccoli imperatori locali, e ne mostra continuamente i vestiti nuovi, qualcuno ancora in grado di discernere potrebbe cominciare a gridare che “il re è nudo”.