Esiste un’opposizione a Viktor Orbán, premier ungherese dal 2010? È una domanda retorica e tuttavia sensata, perché in Ungheria – da anni sorvegliata speciale da parte dell’Unione europea per gli attacchi alla libertà di stampa e all’indipendenza della magistratura, oltre che per il suo essere più vicina a Mosca che a Bruxelles, e infine, in questi giorni, per la detenzione della cittadina italiana Ilaria Salis – chi tenta di opporsi all’uomo più autoritario del nostro continente non sembra degno di una particolare attenzione mediatica, per quanto questa sarebbe doverosa.
Eppure – anche se battuta nettamente (54,10% contro 34,46), nelle elezioni del 2022, dal partito Fidesz (Unione civica ungherese) di Orbán e della presidente razzista, xenofoba e omofoba, Katalin Novák, che ora controllano i due terzi dell’Assemblea nazionale – la coalizione Hu (Uniti per l’Ungheria), dell’economista e candidato premier Péter Márki-Zay, rappresenta pur sempre più di un terzo dell’elettorato ungherese e governa, dal 2019, la capitale. Ma – ed è stata una delle ragioni della sconfitta – quell’“unità” declamata nel nome lo era solo di facciata. La coalizione aveva infatti riunito ben nove partiti, tra cui il Partito socialista, i verdi, i liberali e altri ancora. Troppe anime che hanno fatto emergere, inevitabilmente, più di una criticità. A peggiorare la situazione, la presenza di Jobbik, partito xenofobo e antisemita, che, pur avendo ammorbidito le sue posizioni, resta pur sempre una formazione poco appetibile per un elettorato progressista. Furono così infrante le speranze maturate nel 2019, quando l’ambientalista, liberale ed europeista, Gergely Karácsony, divenne sindaco di Budapest.
In questo scenario, così complicato per l’opposizione, quale ruolo gioca la sinistra? Alcuni osservatori hanno sottolineato come, negli ultimi anni, le posizioni dell’opposizione si siano spostate a sinistra, manifestando un maggiore impegno sui fronti del reddito di base, dei minimi sociali, del diritto alla casa e degli aiuti ai più poveri. E tuttavia è mancato e manca, al riguardo, un piano strutturato, al di là della promessa elettorale. Stessa musica per quanto riguarda l’abrogazione delle peggiori leggi del regime, il ripristino dello Stato di diritto e della libertà di stampa. Ancora più complicato trovare un mondo in cui, alla scontata guerra al regime, si affianchi anche un approccio critico nei confronti della Nato, dell’Europa e dell’economia di mercato. Chi, lodevolmente, e senza l’approccio moderato di Uniti per l’Ungheria, ha a cuore queste battaglie lo fa dentro piccole realtà partitiche e di movimento, che, come succede altrove, influiscono poco o nulla sulle scelte politiche del Paese.
Gli stessi partiti operai Munkáspárt e Munkáspárt 2006, pur essendo più strutturati, non sfuggono a questa regola. Lo dice con chiarezza il risultato disarmante della fusione avvenuta, due anni fa, tra Munkáspárt con Szolidaritás e con Igen, il partito di cui è cofondatore Tibor Szanyi, fuoriuscito del Partito socialista. Il risultato di Veled Vagyunk! (Siamo con te!), organizzazione nata appunto da questa fusione, è stato dello 0,16%: praticamente nulla. In Ungheria non c’è spazio per formazioni prive di base sociale, ignorate dai più e con tutta evidenza anacronistiche.
Scenario complicato anche sul fronte sindacale, le cui organizzazioni non sono viste dalla cittadinanza come strumenti di lotta per conquistare diritti – pur senza dimenticare che la gente si tiene alla larga da esse per il timore dei licenziamenti. Il principale sindacato è la Magyar Szakszervezeti Szövetség, ovvero la Confederazione nazionale dei sindacati ungheresi, nata nel 1990, membro della Federazione internazionale dei sindacati e della Confederazione europea dei sindacati. Il presidente, László Kordás, non nasconde l’ambizione di trasformarla in qualcosa di più influente, impresa però tutt’altro che semplice.
Tornando alla politica, la palla della rivincita tornerà dunque nelle mani di Uniti per l’Ungheria, e in particolare di una delle componenti più in salute, rappresentata dall’eurodeputata Katalin Cseh, esponente del Partito liberale Momentum, che ha dieci seggi in parlamento e due a Strasburgo. Fondato nel 2016, è un partito centrista ed europeista, che ha come punto di riferimento il presidente francese Macron, ed è simile alla Piattaforma civica del premier polacco, Donald Tusk. Insomma, un partito liberista, che dovrà fare i conti con le componenti più di sinistra della coalizione, e che, non essendoci alternative, si ripresenterà alle elezioni politiche del 2026.
Intanto, l’Ungheria democratica si prepara ad assistere, suo malgrado, ancora una volta alla Festung Budapest (Fortezza Budapest), evento organizzato dall’associazione Legio Hungaria, divenuto famoso per il caso Salis. È un’occasione per centinaia di neonazisti che celebrano la resistenza contro l’Armata rossa durante la Seconda guerra mondiale. Non mancheranno “ospiti” provenienti dalla Germania, dalla Svezia, dalla Gran Bretagna – e rappresentanti nostrani, come CasaPound e altre amenità. Un evento che, come ogni anno, si caratterizzerà per una serie di iniziative “culturali”, ivi compresi pestaggi e violenze. Malgrado ciò, le autorità ungheresi non sono sfiorate dal dubbio di vietare spettacoli offensivi nei confronti delle tante vittime provocate dal nazifascismo. Ma, come da noi, alla stragrande maggioranza degli ungheresi e delle ungheresi questi temi non interessano affatto, privilegiando la difesa di un “patriottismo” che i recenti accordi con l’Europa potrebbero però addomesticare.
Nella foto: Katalin Cseh, esponente del Partito liberale Momentum