Sabato scorso, 27 gennaio, è stata celebrata la giornata della memoria: ma forse sarebbe più opportuno parlare di “settimana della memoria”, perché già vari giorni prima di questa data ne veniva ricordata l’importanza e il significato, anche mediante una particolare programmazione televisiva: sono infatti numerosi i film sull’Olocausto passati sulle varie reti, dal classico Schindler’s List, di Steven Spielberg, ad altri più recenti e meno noti, come Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber, tratto dall’omonimo libro di Jonathan Safrar Froer. C’è però da domandarsi, en passant, come mai uno dei film più belli e commoventi sull’argomento, cioè Il negozio al corso di Ján Kadár e Elmar Klos, che pure ricevette nel 1966 l’Oscar per il migliore film straniero, non sia mai stato incluso in queste rassegne, negli ultimi anni, almeno a quanto ci risulta. Difficoltà di procurarsi la pellicola? Ignoranza dei programmisti? Disagio nel proporre un film prodotto nell’allora Cecoslovacchia comunista (e per di più tre anni prima della primavera di Praga)? O forse tutte e tre le cose insieme? Tralasciamo questo dettaglio, per concentrarci sull’utilità di celebrare la giornata della memoria, da un lato, e il modo di celebrarla, dall’altro. Si tratta di un’iniziativa assolutamente necessaria e doverosa, ma la maniera in cui è abitualmente svolta è almeno in parte da ripensare.
L’assoluta necessità dell’iniziativa è data anzitutto dal fatto che, dell’Olocausto, si è ben poco saputo fino al 1960 circa, un po’ per un malinteso programma di “pacificazione”, un po’ per la riluttanza delle stesse vittime, probabilmente così sconvolte dalla tragedia che le aveva travolte da non volerne neppure parlare. Poi c’è un problema ancora attuale, che rende oltremodo opportuna una “giornata della memoria”: la persistenza, se non la recrudescenza, dell’antisemitismo in alcuni settori della società italiana, non solo confinati alle formazioni neofasciste più estreme.
Molti di noi avranno avuto esperienze di questo genere, che ovviamente non hanno il valore di un’indagine demoscopica, ma possono comunque avere qualche significato. Personalmente, ricordo di essermi imbattuto più di una volta in individui che, quando la conversazione verteva su un’altra tragedia, cioè quella che da tre quarti di secolo si consuma in Medio Oriente, parlavano degli ebrei come di una “razzaccia”, o qualcosa del genere (a volte l’epiteto dispregiativo era rivolto anche agli arabi, a volte no). Si badi bene: la colpa era attribuita agli ebrei in quanto tali, non a Israele e al suo governo. C’è un po’ di differenza con quanto diceva, sabato scorso, un esponente della comunità palestinese di Milano, che invitava tanto i suoi connazionali quanto gli ebrei a manifestare contro ciò che Israele sta attualmente facendo a Gaza. Certo, le sue parole non scuoteranno le certezze di tutti quegli autorevoli opinionisti, in generale non ebrei, che liquidano come antisemitismo qualunque forma di critica a Israele; ma forse avranno effetto su qualche coscienza più libera e onesta.
L’antisemitismo in Italia, come altrove, ha radici nella cultura cattolica, ma forse potremmo dire cristiana in generale, dato che è diffuso anche in Paesi protestanti, come tra le classi dominanti nel Sudafrica dell’apartheid, nonostante il buon rapporto di quest’ultimo con Israele (vedi qui), e in quelli ortodossi (si pensi ai pogrom in Russia e in Ucraina tra Ottocento e Novecento). Per citare solo qualche esempio, padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università cattolica, in un discorso tenuto all’Università di Bologna il 9 gennaio 1939, cioè poco più di tre mesi dopo la promulgazione delle leggi razziali, ribadiva la tesi secondo cui “alla fin fine sono sempre gli ebrei a provocare quelle persecuzioni, perché così vuole quello stesso grido imprecatorio scagliato dai loro antenati davanti a Pilato [“Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli!”, ndr]” (citato in G. Miccoli, I silenzi e i dilemmi di Pio XII, Rizzoli, 2000, p. 325). Ancora: l’aggettivo “perfidi”, riferito a “giudei”, è stato cancellato dalle preghiere del venerdì santo solo nel 1959 (quindi quattordici anni dopo la liberazione di Auschwitz!), da Giovanni XXIII, salito al soglio pontificio l’anno precedente; e c’è voluto ancora qualche anno, con il Concilio Vaticano II, perché gli ebrei fossero definitivamente assolti dall’accusa di “deicidio”.
Se dunque una giornata, o anche una settimana, della memoria, appare assolutamente necessaria, c’è da ripensare il modo in cui è celebrata: si insiste, giustamente, sugli orrori dei lager, con testimonianze toccanti come quelle di Liliana Segre, o sull’ingiustizia delle leggi razziali, ma si ha l’impressione che tutto questo sia un po’ staccato dalle sue radici, che stanno nella cultura liberticida del fascismo e del nazismo. Infatti, con le leggi razziali prima e i lager poi, i nazifascisti non facevano altro che servirsi del loro apparato repressivo, già da tempo sperimentato, per soddisfare appieno, nel modo più atroce, le tendenze antisemite da sempre presenti nelle società occidentali.
Bisogna riconoscere a Giorgia Meloni di avere definito, in quest’ultima occasione, le leggi razziali frutto del “disegno criminale nazifascista”, mentre lo scorso anno si era limitata a parlare di “infamia” delle stesse leggi; un passo significativo, quindi, da parte di una persona che ha iniziato la sua carriera politica in una formazione neofascista. Però non ci si può limitare a parlare di “disegno criminale”, ma occorre descriverlo con maggiori dettagli: se non lo fanno le formazioni di destra (il che è in una certa misura comprensibile), non possono non farlo quelle di sinistra, che ormai sembrano, in molti casi, concentrarsi sul solo abominio delle leggi razziali, senza fare qualche altro esempio della politica liberticida del fascismo.
Anzitutto, le elezioni della Camera (il Senato era di nomina regia, come nell’Italia prefascista), che si svolgevano su liste bloccate, predisposte dal Partito nazionale fascista: il cittadino elettore (si fa per dire) poteva solo scegliere tra l’approvazione o meno di tali liste, ponendo nell’urna una delle due schede che gli venivano consegnate, una per il sì, l’altra per il no. La scelta andava fatta nel segreto della cabina, ma le schede erano di colore diverso: quella del sì era tricolore, quella del no era bianca; quindi non era molto difficile capire, per gli addetti al seggio, quale fosse stata la scelta operata.
Un altro esempio è il modo in cui il fascismo aveva regolato i rapporti tra capitale e lavoro. Il compito era affidato alle cosiddette “corporazioni”, che erano composte su una base che diremmo oggi “paritetica”, in quanto formate, in teoria, da un uguale numero di rappresentanti dei capitalisti e dei lavoratori: tuttavia, “scorrendo gli elenchi dei Consigli delle Corporazioni del ’34 e del ’39, si nota come, a fronteggiare ben qualificati rappresentanti del capitale, fossero collocati, per i lavoratori, noti avvocati, professori, deputati, gerarchi e ‘benemeriti’ della causa fascista, la cui competenza sindacale doveva essere quanto meno dubbia” (R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Mursia, 1998, p. 465). Anche tutto questo dovrebbe essere ricordato, soprattutto ai giovani, ma anche ai meno giovani, molti dei quali lo ignorano (e come dimenticare che una volta la buon’anima di Berlusconi parlò di “vacanze pagate” a proposito degli antifascisti che erano stati mandati al confino dal regime?).
Ben venga, dunque, la giornata della memoria, ma ricordiamo anche il fascismo in tutti i suoi aspetti; altrimenti, può diffondersi l’idea pericolosa e sviante che Mussolini abbia fatto solo un errore, cioè quello di voler compiacere Hitler: in realtà, tra i due c’era una perfetta corrispondenza di amorosi sensi. E sarebbe opportuno tornare a celebrare, oltre al 27 gennaio, con uguale risalto il 25 aprile, che oggi qualcuno ancora tende a qualificare come “elemento di divisione tra italiani”, o comunque a ridimensionare; soprattutto, andrebbe sottolineato il legame che c’è tra le due date: se possiamo (anzi, dobbiamo) ricordare la prima, è solo perché c’è stata la seconda.