Dopo una lunga bonaccia – seguita alla cosiddetta guerra dei trent’anni innestata dal conflitto di interessi di Berlusconi, che usò le sue televisioni come un’armata di conquista, prima per condizionare la politica nazionale e poi per sostituirsi a essa –, ora il governo di destra sembra fare prove tecniche di regime. La polemica contro il quotidiano “Repubblica”, considerato il capofila dell’opposizione non solo mediatica, insieme all’insofferenza che Palazzo Chigi mostra rispetto a ogni critica o notizia scomoda diffusa da giornali, emittenti o anche semplici siti web, annuncia una stretta sul versante del pluralismo. Persino la bella addormentata, la Rai, torna nel gorgo delle polemiche politiche. Sul servizio pubblico si scaricano la bulimia della maggioranza e le lamentele della minoranza, e viene giocato il jolly della “fondazione” come bacchetta magica che dovrebbe sanare le magagne di una funzione che rimane strettamente connessa alla governance politica. Una discussione che risale almeno alla metà degli anni Novanta, quando proprio l’incombere del regime berlusconiano, che già controllava le emittenti private, rese la lottizzazione un latifondo commerciale.
La morsa della politica sugli apparati comunicativi di massa, tv o giornali, deputati alla creazione di un’opinione dominante, si è trasformata in una strategia che mira a delegittimare più che conquistare i media, con l’obiettivo di arrivare direttamente all’utente finale – avrebbe teorizzato il (non) compianto avvocato Ghedini. Il vertice del governo, infatti, punta decisamente a sminuire la funzione di interfaccia sociale dei giornalisti, attaccati direttamente, quasi nominativamente, cercando con le “norme bavaglio” di renderne sempre meno praticabile l’attività. Nulla d’inedito. Qualcosa che comincia con la sostituzione dei partiti di massa con i partiti personali. Cos’è un’organizzazione politica, che si identifica con un solo leader, se non un canale di comunicazione che si rivolge direttamente agli elettori, non tollerando alcuna mediazione? Dal leader di Forza Italia a D’Alema – che spiegò già nel 2000 come poteva scalzare i giornalisti –, fino alle pulsioni peroniste della “Bestia” di Salvini e oggi a quelle del cerchio magico meloniano.
È in questa mediamorfosi della politica che va cercata una bussola, più che nell’alchimia istituzionale, che si limita solo a spostare o a estendere la catena di comando sulla Rai. Tanto più che ormai l’ecosistema dell’informazione, nel nostro Paese, è strutturalmente diverso da quanto appariva qualche mese fa. Basti pensare che avremo in funzione, fra tre anni, almeno otto milioni di smartphone integrati con soluzioni di intelligenza artificiale che organizzeranno la nostra dieta mediatica. La libertà di informazione, già da tempo, non coincide con il regime professionale dei giornalisti, ma è uno spazio in cui ogni cittadino esercita, contemporaneamente, la sua pretesa di essere correttamente informato e di potere, a sua volta, produrre e distribuire notizie.
Da qui soprattutto dovrebbero partire le forze di opposizione, che su questo terreno provano comunque a imbastire una reazione più vibrante di quanto finora messo in campo su altre questioni. Siamo da almeno quattro lustri in una fase in cui l’informazione non è più essenzialmente il modo in cui media e istituzioni si controllano reciprocamente. Siamo in quella nuova economia che considera la produzione di notizie e narrazioni come la moneta sonante che autorizza e promuove gli scambi. Una trasformazione che vede le forze del vecchio patto sociale fra proprietà e lavoro, costituito nel cuore del fordismo, sostituite da realtà più sfuggenti e “liquide”, direbbe Bauman, dove l’informazione è la materia prima sia della produzione sia delle relazioni fra individui e ceti.
Manuel Castells, nel suo Reti di indignazione e di speranza (Bocconi editore), dedicato all’insorgere dei movimenti contemporanei, cioè a quella che una dozzina di anni fa fu detta “la rivoluzione di Internet”, collegando le primavere arabe alle svolte populiste e sovraniste che si intravedevano in Europa, spiegava che “(al tempo della rete) il potere è esercitato tramite la costituzione di significati nell’immaginario collettivo”. Una lezione che la sinistra non ha ancora metabolizzato, mentre la destra ha ingegnerizzato quel processo informatico mediante il quale si può isolare ogni singolo individuo, cliente o elettore che sia, per assediarlo con flussi di contenuti informativi altamente personalizzati. Cambridge Analytica è stata la madre di queste strategie informative, scombussolando il tradizionale meccanismo elettorale americano e aprendo la strada della Casa Bianca a Donald Trump.
Questo è, complessivamente, lo scenario che rende l’informazione il luogo e il codice di organizzazione delle nuove gerarchie sociali. I media non sono più titolari del disvelamento della notizia, ma centri reputazionali che avvalorano e confermano il flusso che sale dalla società tramite la rete. In questo anno di elezioni globali, stiamo assistendo a un’orgia di queste tecniche di pressione e persuasione molecolare. Un flusso che oggi viene sempre più orchestrato – l’esperienza della guerra in Ucraina lo ha reso esplicito – da potenze e apparati del potere nazionale, che utilizzano tecniche e procedure di scannerizzazione dei milioni di utenti a cui ci si rivolge con linguaggi e toni famigliari e intimi.
La nuova battaglia per l’egemonia si gioca su questo fronte, più che sul Teatro di Roma o sulla stessa Rai. Certo, i mass-media ancora oggi sono un sistema di accreditamento culturale. Ma non sono più gli orchestratori delle opinioni, che nascono invece nell’intimità di quello scambio di informazioni online in cui ognuno diventa consumatore o produttore, alternativamente. Pensiamo agli sciami che circondano gli influencer, ma pensiamo soprattutto a quel microtargetting che vede ognuno partecipare a piccole comunità digitali, in cui ci si trova alle prese con improvvisi incursori che brandiscono informazioni e concetti estremi, sollecitanti una rissosità che diventa di per sé un contenuto reazionario.
In questa chiave, la strategia del governo non si limita a tacitare le voci scomode, secondo la tradizione dei regimi autoritari. Non si vuole censurare ma radicalizzare. Siamo in quella spirale azione/repressione/reazione, che porta ancora oggi alla ventura i movimenti sociali che si abbandonino a una logica di ritorsione immediata. L’obiettivo è infatti legittimare i toni forti, rendere presentabili quelle componenti che alzano la temperatura. L’abbiamo già visto con la guerra ibrida scatenata in Europa dagli hacker russi, e che nel 2018 ebbe proprio in Italia una prima sperimentazione con il team di Salvini, ai tempi del governo gialloverde, in cui la Lega interveniva in rete, con la copertura di centri internazionali sia americani sia russi, per estremizzare il dibattito, spostando le aree moderate su fronti estremi riguardo ai temi dell’immigrazione e dell’euro.
Oggi Meloni, con alcune società di consulenza internazionale, sta preparando una campagna elettorale per le europee ancora più estrema. L’obiettivo non è solo il consenso elettorale ma un legame sociale da stringere con i singoli elettori, individuati in base ai profili digitali. L’informazione diventa così cybersecurity. Il teorico adottato dai suoi consulenti è Edward Bernays, una singolare figura di intellettuale, nipote di Sigmund Freud, pioniere negli anni Trenta del marketing motivazionale, autore di un testo oggi avidamente letto a Palazzo Chigi, dal titolo significativo, Propaganda, edito nel 1928. Bernays scrive che “poiché la nostra democrazia ha la vocazione di tracciare la via, deve essere governata dalla minoranza intelligente che sa organizzare le masse per poterle meglio guidare”. Per Bernays la propaganda non è semplicemente una tecnica di marketing politico, ma diventa il linguaggio mediante cui le élite di governo formano e addestrano le masse. Negli Stati Uniti della “grande depressione”, Bernays puntava proprio sull’istruzione, la scuola, come grande medium molecolare. Oggi le sue teorie sono perfettamente adattabili alle risorse di chi propone un uso spregiudicato della rete e dei nuovi sistemi di intelligenza artificiale. Tanto più se manca un contrasto sia politico sia culturale da parte delle forze di opposizione. Reagire a questa politica con la consueta mobilitazione antifascista in difesa degli spazi pubblici, o delle sedi di pensiero critico, come dovrebbero essere la Rai e i quotidiani indipendenti, significa cedere alla maggioranza reazionaria il monopolio sui nuovi linguaggi, e soprattutto sulle forme nuove di organizzazione sociale.
Nelle forme digitali di comunicazione il destinatario non è una platea informe di telespettatori o generici lettori, ma una concatenazione di comunità, da cui sorge la viralità dei messaggi. Proprio quella realtà che è alla base della mobilitazione passiva eccitata da Trump, che utilizza le nuove tecniche per riprodurre realtà parallele in cui inserragliare i suoi supporter, separandoli dal dibattito pubblico. I media sono strumenti di evangelizzazione – afferma il fondatore di BuzzFeed, Jonah Peretti, che provocatoriamente aggiunge: non dobbiamo più comportarci come le religioni ecumeniche che parlano al mondo, ma come le sette, come i mormoni, che confiscano i propri fedeli. Un orizzonte reso plausibile da quanto sta accadendo in tutta Europa e anche in Italia.
La battaglia di libertà dell’informazione è una battaglia di poteri e di conquista mirata e meticolosa di individui. Una battaglia che la destra gioca con i suoi strumenti plebiscitari, di sobillazione di occasionali moltitudini scagliate contro un nemico. La sinistra deve imparare invece a riprogrammare, in virtù della natura cooperativa e associativa che la rete permette. Una cooperazione in cui, però, va messo in palio il proprio primato di gruppo dirigente. Non si esce da questa contesa come si è entrati: con lo stesso partito e con lo stesso gruppo dirigente. Soprattutto, non si risolve questo gap con una “fondazione”, come potrebbe essere quella della Rai, ma con un presidio sociale che possa trasformare l’informazione in organizzazione politica, in presenza e protagonismo territoriale. In altre parole, mai come oggi la politica è al primo posto.