L’Italia era già stata il laboratorio di una perversione politica di successo negli anni Venti del Novecento: però in un contesto internazionale che aveva visto da poco la fine di una guerra mondiale seguita da una rivoluzione, e, nel nostro Paese, un movimento operaio sulla difensiva, diviso, ma ancora forte. La tragicommedia che andò in scena nel 1994 con la “discesa in campo” di un imprenditore dal recente passato vicino al segretario (e definitivo affossatore) del Partito socialista, avveniva, invece, nel panorama di una generale smobilitazione delle forze di sinistra, ormai neppure più socialdemocratiche ma puramente e semplicemente liberaldemocratiche. Il movimento operaio e le sue braci non stridevano da tempo – solamente era visibile una generica lotta contro la corruzione (la cosiddetta stagione di Tangentopoli), con tutti i suoi non imprevedibili risvolti qualunquistici.
L’avvento del berlusconismo politico significò la privatizzazione e la presa in ostaggio della vita pubblica, il consolidarsi di un’egemonia nei media da parte di un signore cresciuto grazie ai favori dei governi del cosiddetto Caf (l’alleanza tra Craxi, Andreotti e Forlani), una deformazione della democrazia liberale fino a quel momento mai vista in nessun Paese dell’Occidente. Significò inoltre l’affermarsi di una forma nazional-televisiva di populismo – che, con la Lega di Bossi, aveva avuto fino ad allora unicamente una dimensione regionale –, lo sdoganamento di un personale politico che affondava le radici nel fascismo di Salò, e la bizzarria assoluta di un partito organizzato in modo aziendale sul modello di un’agenzia pubblicitaria (Publitalia).
Tutto ciò avvenne nel segno di una pretestuosa lotta contro un comunismo che non c’era più, ma in realtà – ed è la cosa che non si dice mai – bruciando il terreno politico vitale di una forza politica di centro, il rinnovato Partito popolare, in grado di costituire il polo di un’alternanza nei confronti di una formazione come il Partito democratico della sinistra. Non v’è dubbio, infatti, che quel 10% circa dei voti, che nonostante tutto i cattolici democratici conseguirono nelle elezioni del 1994, avrebbe potuto essere il 20%, o anche più, senza la presenza di Forza Italia. Soprattutto il sistema si sarebbe in breve tempo riassestato; invece la nascita di Forza Italia eternizzò, in un certo senso, gli effetti di Tangentopoli – lo sconvolgimento del vecchio mondo politico –, conducendo infine anche alla strana alleanza, se misurata con un metro europeo, che diede vita alcuni anni dopo al Partito democratico. Questo ircocervo, infatti, non fu che una conseguenza indiretta del berlusconismo, che rese impossibile la ripresa e la rivitalizzazione di ciò che restava della Democrazia cristiana.
La cosa incredibile è che siamo ancora immersi nella stessa temperie. Il berlusconismo è una formula politica che sopravvive al suo fondatore. Consiste, nei suoi termini spiccioli, in uno pseudo-centro alleato con i nazional-populisti nelle due versioni, postfascista e oggi leghista salviniana. Più nel profondo esso fu la distruzione di qualsiasi autonomia della politica da parte di un potentato economico e di agenzie dell’estetizzazione diffusa, all’epoca specificamente televisiva. Il presidenzialismo ne sarebbe stato la compiuta forma istituzionale in quanto elezione diretta di un capo: un’operazione che al fondatore non riuscì, per via, in particolare, di un referendum costituzionale andato male (per nostra fortuna) nel 2006, e forse più in generale per la debolezza intrinseca del personaggio, in fin dei conti non un politico ma qualcuno che prima di tutto mirava alla difesa dei propri interessi privati.
Oggi Giorgia Meloni ne riprende il programma. È lei l’autentica erede berlusconiana.