Esiste in Italia un partito trasversale che considera la libertà di informazione come un fastidioso intralcio, se non un pericolo vero e proprio. Questo partito, a composizione variabile, spesso si raggruma attorno a provvedimenti bavaglio mirati a comprimere il nostro diritto a informare e a essere informati. Fra gli ultimi arrivati, l’emendamento alla legge di delegazione europea presentato dal deputato Enrico Costa, attualmente in Azione (ma in passato ex-molte cose: Pli, Polo delle Libertà, Udc, Forza Italia, Popolo delle Libertà, Ncd, Ap, Ncl, nonché viceministro e ministro nei governi Gentiloni e Renzi – e scusate se mi fosse sfuggita qualche sigla). L’emendamento è stato sottoscritto da Davide Faraone, ora in Italia Viva (ma ex Ds, ex Pd e già sottosegretario con Gentiloni e Renzi). Il governo Meloni, alle prese con la delega per l’annuale adeguamento della legislazione nazionale a quella dell’Unione europea, ha dato parere favorevole a questo emendamento, che è stato da poco approvato con una larga maggioranza alla Camera e ora è avviato all’esame del Senato. Ma le associazioni sindacali dei giornalisti (Federazione nazionale della stampa, Associazioni regionali di stampa e Comitati di redazione) esprimono fortissime critiche al provvedimento, chiedono al presidente Mattarella di non firmare la legge e minacciano lo sciopero generale.
Cosa prevede l’emendamento Costa? Modificando l’articolo 114 del Codice di procedura penale, vieta la pubblicazione “integrale o per estratto” del testo delle ordinanze di custodia cautelare fino alla chiusura delle indagini preliminari. In sintesi, fa calare il silenzio su inchieste, indagini e ipotesi di reato fino al passaggio formale in tribunale. “Se fosse già stato in vigore – denuncia il comitato di redazione del Tg3 – avrebbe impedito al nostro pubblico di conoscere realmente cosa è avvenuto il 23 maggio 2021 sul Mottarone prima del 20 maggio 2023, giorno della chiusura dell’indagine preliminare. Sarebbero stati due anni di interrogativi senza risposta sui controlli mancati e sulla consapevolezza degli indagati del malfunzionamento dell’impianto”. Chissà quando avremmo saputo qualcosa su casi come quello di Stefano Cucchi, o su “Mafia capitale”, o su tante altre vicende che hanno richiesto lunghe e complesse indagini.
A detta di Costa, l’emendamento sarebbe finalizzato a dare piena attuazione alla direttiva europea sulla presunzione di innocenza, la 343 del 2016. Ma se il legislatore europeo si è mosso per rafforzare un principio sacrosanto (peraltro già sancito dalla nostra Costituzione all’art. 27), e ha stabilito che “nel fornire informazioni ai media, le autorità pubbliche non presentino gli indagati o imputati come colpevoli, fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata”, in Italia il tardivo recepimento della 2016/343 ha generato un’inquietante torsione.
Sempre al recepimento della medesima direttiva, infatti, si collega la riforma Cartabia, varata nel 2021 dall’esecutivo Draghi e all’epoca approvata dalla larghissima maggioranza a sostegno del “governo dei migliori” (inclusi Pd e 5 Stelle, che oggi avversano l’emendamento Costa). Questa riforma ha limitato l’accesso dei cronisti a fonti quali magistrati e pubblici ministeri, attribuendo al solo procuratore della Repubblica la competenza sulla diffusione degli atti di indagine. Una diffusione a cui si può procedere solo “con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse”. In buona sostanza, con la Cartabia, è a discrezione del capo di una procura stabilire cosa sia o meno di pubblico interesse e, dunque, cosa sia di fatto una notizia.
Se questa discrezionalità dovesse apparire come un danno per i soli giornalisti, ecco qualche esempio per focalizzarne la portata generale. Come il laconicissimo comunicato di sole ventuno righe (questo il testo integrale) con cui, a marzo 2023, il Tribunale di Bergamo rese nota la conclusione delle indagini, durate tre anni, per l’inchiesta sulla gestione della prima ondata del Covid-19: dei diciassette indagati non appare un solo nome, nulla si dice delle loro diverse posizioni, né c’è traccia delle ipotesi di reato. Era questa materia di scarso interesse pubblico? Come pure tutte le vicende documentate nel “Press report 2023”, curato dal Gruppo cronisti lombardi in collaborazione con l’Associazione Stampa Romana (qui il documento), dove emerge con chiarezza che il bavaglio imposto dalla Cartabia ha come principale vittima il diritto dei cittadini a essere informati.
Intanto, il governo Meloni depenalizza l’abuso d’ufficio, ma annuncia sanzioni più severe per il reato di pubblicazione arbitraria di atti (articolo 684 del Codice penale): pronti due disegni di legge di Forza Italia: uno con pene dai due ai cinque anni di carcere, l’altro con una multa da cinquantamila a centocinquantamila euro. Insomma, mano leggera con i misfatti dei colletti bianchi e pugno duro con chi i misfatti li racconta.
Va ricordato che, nonostante se ne discuta da tempo, la diffamazione a mezzo stampa in Italia è ancora punibile con la reclusione. Quattro proposte di modifica giacciono in parlamento, ma secondo Article 19 (vedi qui), organizzazione per la tutela della libertà di espressione, nessuna rispetterebbe gli standard internazionali: “Al contrario introducono multe più aspre e sanzioni accessorie come quelle disciplinari”. Come se già non bastassero i risarcimenti a molti zeri richiesti con le querele temerarie, levate come una clava a intimidire quei giornalisti che ancora fanno i cani da guardia con inchieste scomode, o magari con corretta e puntuale cronaca locale– e quanti freelance o precari dispongono della copertura, legale ed economica, indispensabile a sostenere certe cause?
A torto o a ragione, i giornalisti italiani vengono invece spesso accusati di essere dei cani da riporto. In caduta libera la reputazione della categoria, a cui non si perdona il collateralismo con gli apparati di potere, la scarsa autonomia e l’inadeguatezza nell’analisi e nell’approfondimento mostrata durante gli shock ravvicinati di questi ultimi anni: la crisi economica e l’impoverimento di larghe fasce della popolazione; la pandemia e la compressione dei diritti umani e sociali; le guerre ai confini dell’Europa. Temi in cui la parola della propaganda, con il suo pensiero unico e i suoi refrain tagliati con l’accetta, ha spesso prevalso su quel pluralismo di fatti e opinioni che una vera informazione dovrebbe garantire. Così un pubblico insoddisfatto ha cercato di appagare altrove i suoi bisogni: nel web o sui social, dove l’anonimato impera e dilagano le notizie prive di verifica.
In un Paese sedicente democratico, battersi contro la censura di Stato è cruciale per la dignità del giornalismo, come giustamente sostiene la Federazione nazionale della stampa. Se partendo da qui si provasse a ricostruire un’alleanza con l’opinione pubblica, rendendo la nostra battaglia una battaglia di tutti per un’informazione libera, si potrebbe cercare di riportare il giornalismo alla funzione sociale che gli è propria. Per non buttare il bambino, l’acqua sporca e pure la vaschetta.