La settimana scorsa ci sono giunte due notizie riguardanti il conflitto russo-ucraino. La prima lo riguarda in modo diretto: si tratta delle esercitazioni che la Nato sta organizzando ai suoi confini orientali, cioè quelli tra i Paesi baltici e la Polonia, da una parte, e la Russia dall’altra. La seconda non riguarda direttamente la guerra in corso: si tratta della schiacciante vittoria elettorale di Trump alle primarie in Iowa, che gli apre la strada alla quasi sicura nomination repubblicana per le presidenziali del prossimo novembre, alle quali, a quanto pare, ha buone possibilità di vittoria (se eventuali interventi giudiziari non gli impediranno di presentarsi, il che è ancora tutto da verificare). Trump sulla questione ucraina, com’è noto, ha sempre sostenuto di poter arrivare rapidamente a una sua soluzione pacifica, ricordando tra l’altro che, durante la sua presidenza, gli Stati Uniti non sono stati coinvolti in nessuna guerra. Ci si può quindi domandare quale effetto reale sui prossimi sviluppi del conflitto potranno avere, da un lato, l’annuncio delle esercitazioni Nato e, dall’altro, il possibile trionfo elettorale del tycoon americano.
Cominciamo dalla prima notizia. Sembra chiaro che si tratti di un nuovo esempio di quello che papa Francesco ha chiamato “abbaiare della Nato ai confini della Russia”, che ha provocato – almeno in parte – l’invasione russa dell’Ucraina (che rimane un atto criminale, com’è sempre opportuno precisare per prevenire l’accusa di essere “pacifinti”, o “putiniani di casa nostra”, che poi ci arriverà in ogni caso). Una volta scoppiata la guerra, e non appena si è accorto che le forze ucraine opponevano una resistenza inattesa agli invasori russi, l’Occidente, capeggiato dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, fedelmente seguiti dall’Unione europea in generale, e dai governi italiani Draghi e Meloni in particolare, ha sempre spinto per una prosecuzione del conflitto fino alla disfatta di Putin: e questo nonostante Zelensky avesse proposto, già nei primi giorni del marzo 2022, una soluzione di compromesso, che prevedeva un accordo per il Donbass, un accantonamento provvisorio della questione Crimea e l’impegno dell’Ucraina a non aderire alla Nato.
Alla fine di quel marzo, grazie alla mediazione della Turchia, erano stati avviati negoziati per una tregua tra i due belligeranti: tali negoziati “si sono improvvisamente interrotti, per motivi non chiari, ma si sa che l’allora premier britannico è andato in Ucraina per informarne il governo che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna ritenevano inopportuni i negoziati, in quel momento”, come dice Noam Chomsky, in un’intervista del 22 dicembre 2022 (in Poteri illegittimi, Ponte alle grazie, 2023, p. 370). Oggi i motivi sono più chiari: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno mai voluto una conclusione pacifica del conflitto, ma hanno sempre spinto perché esso prosegua fino alla sconfitta totale della Russia. Nella primavera del 2022, il premier britannico era Boris Johnson; in modo del tutto analogo, si è comportato il premier attuale, Rishi Sunak, che si è recato a Kiev (o Kyiv) pochi giorni fa, per concludere una sorta di alleanza militare tra il suo Paese e l’Ucraina.
Del resto, i vari leader occidentali (trovando un’enorme cassa di risonanza nei principali media) hanno sempre ribadito l’esigenza di proseguire la guerra, con due motivazioni apparentemente contraddittorie: da un lato, perché altrimenti la Russia estenderebbe la sua politica di aggressione ad altri Paesi (il famoso slogan “Putin vuole estendere il suo dominio da Kiev a Lisbona”); dall’altro, perché la Russia è così debole che può essere facilmente sconfitta. In realtà, come osserva ancora Chomsky (Poteri illegittimi, p. 303), si tratta di un perfetto esempio di quello che Orwell chiamava “bipensiero”: quando la Russia sembra avere la meglio, si applica la prima strategia di comunicazione; quando sembra avere la peggio, si applica la seconda, come dimostra l’enfasi data alla cosiddetta “controffensiva” ucraina, tra la primavera e l’estate dello scorso anno. Ora che tale controffensiva è sostanzialmente fallita, e la guerra si sta trasformando in una guerra di posizione, in cui è avvantaggiato il contendente che dispone di maggiori risorse di mezzi e di uomini: visto che questo è la Russia, allora si ricorre nuovamente alla strategia di gridare (come ha fatto, per esempio, Ursula von der Leyen) all’espansionismo senza limiti di Putin.
Tornando alla prima delle due notizie, di cui si diceva all’inizio, l’annuncio delle esercitazioni Nato ai confini orientali dell’alleanza è un chiaro indizio che l’Occidente vuole proseguire la guerra, senza preoccuparsi dei rischi che un suo allargamento può comportare, né delle sofferenze che, ormai da quasi due anni, devono sopportare le popolazioni che vivono sulla linea del fronte (a parte i soliti piagnistei di maniera con cui ci affliggono i telegiornali).
Passiamo ora a considerare se e come una possibile vittoria elettorale di Trump potrebbe influire sul conflitto russo-ucraino. Naturalmente, non si può ragionare che in via ipotetica, in quanto tale vittoria è possibile ad almeno tre condizioni: 1) la nomination repubblicana (che, allo stato attuale, appare quasi certa); 2) l’assenza di ogni ostacolo giudiziario alla sua candidatura (su cui è difficile fare previsioni, ma pare abbastanza probabile); 3) l’ottenimento di più voti elettorali del concorrente democratico, cioè quasi sicuramente Biden (che attualmente sembra probabile, ma mancano ancora più di nove mesi alle elezioni). Inoltre, c’è un altro elemento da prendere in considerazione, questa volta non ipotetico ma reale: il presidente degli Stati Uniti, eletto a novembre, entrerà in carica solo il 21 gennaio dell’anno prossimo: quindi, in dodici mesi, possono ancora succedere molte cose. Ammesso e non concesso, in ogni caso, che Trump si insedi alla Casa Bianca il 21 gennaio 2025 e, a quella data, la situazione del conflitto e quella internazionale siano ancora più o meno quelle di oggi, metterà davvero fine alla guerra russo-ucraina (che nel frattempo, non dimentichiamolo, sarà costata un altro anno di morti e distruzioni)?
Alcuni di coloro che auspicano da sempre una conclusione pacifica del conflitto ritengono e sperano di sì: Trump, si dice (anche da parte di alcuni opinionisti non stupidi, come Massimo Fini), è un uomo d’affari troppo astuto per non rendersi conto che la guerra è da concludere al più presto, perché comporta un costo troppo pesante per gli Stati Uniti. Ma questa fiducia è davvero ben riposta? Ovviamente, ci si può augurare di sì: purtroppo, alcune considerazioni inducono a ridimensionare questa speranza. Trump, anche se nel 2016 è stato eletto con l’appoggio della classe operaia o, più in generale, dei ceti più colpiti dal neoliberismo dei democratici (di cui la sua allora avversaria Hillary Clinton era una perfetta rappresentante), una volta insediato, ha praticato una politica a sostegno degli interessi dei grandi gruppi industriali e finanziari, dalla riforma del sistema fiscale all’appoggio smaccato alle industrie di combustibili fossili, a dispetto del riscaldamento climatico (del quale ha sempre cercato di sminuire la gravità). Chi ci dice dunque che non voglia appoggiare le industrie di armi, che certamente traggono un consistente profitto dal conflitto in corso? Del resto, durante il suo quadriennio di presidenza, ha considerevolmente aumentato le spese militari, che sono cresciute per una somma equivalente a circa l’80% dell’intero bilancio delle forze militari russe (vedi Chomsky, Lotta o declino, Ponte alle Grazie, 2021, p. 44).
In conclusione, nessuna delle due notizie di cui parlavo all’inizio sembra particolarmente incoraggiante. Per avviare il conflitto russo-ucraino a una soluzione negoziata, ci vorrebbe un diverso atteggiamento di almeno alcuni dei Paesi coinvolti più o meno direttamente, a cominciare da quelli dell’Unione europea. Ma questo rimane, almeno per ora, un pio desiderio.