La cosa più impressionante della valanga elettorale in Iowa di Trump è stata la velocità. Solo trentuno minuti dopo il voto, i suoi portavoce ratificavano il successo, azzeccando le proiezioni su tutto lo Stato. In quel momento, avevano votato solo otto dei circa 1700 distretti in cui si raccolgono le assemblee elettive del caucus dello Stato, che prevede solo il pronunciamento delle assemblee di elettori locali del partito, e non una consultazione formale degli iscritti alle liste elettorali, come per la stragrande maggioranza degli altri Stati. Il campione è certamente ridotto e selezionato – ma sono pur sempre almeno trentamila i delegati coinvolti. Trump, in pochi minuti, sulla base di una frazione infinitesimale dei seggi, ha potuto calcolare i voti che avrebbe raccolto.
Siamo oltre la telepatia. Siamo a Cambridge Analytica. Infatti, proprio il responsabile della campagna elettorale dell’ex presidente, Alex Latcham, senza timore alcuno, ha confessato che il rullo compressore del miliardario di New York si basa sulle mappe dettagliatissime dei consensi, raccolte nelle due elezioni precedenti, nel 2016 e nel 2020. Si riferisce esattamente a quel meccanismo di campionatura che aveva visto il team di Trump acquisire circa 75 milioni di profili, pagandoli almeno cento milioni di dollari – per poi procedere, Stato per Stato, contea per contea, elettore per elettore, a individuare i bersagli da raggiungere e spostare al fine di ottenere, con il meccanismo elettorale a cascata delle presidenziali americane, la vittoria.
Non stiamo dicendo che è tutta una truffa digitale, e che il consenso a Trump sia costruito a tavolino da programmatori informatici. Stiamo segnalando un tema che incombe ormai da dieci anni in Occidente, da quando il capo di stato maggiore russo, Valery Gerasimov, ha teorizzato la guerra ibrida secondo cui, come spiegava in un famoso saggio del 2013, “si combatte interferendo nel senso comune della popolazione dello Stato avversario”. Un’interferenza: stiamo ancora parlando di quell’epoca arcaica in cui non agivano sistemi di intelligenza artificiale, e in cui si profilava la comunità che si intendeva condizionare individuando opinion leaders, o meglio testimonials, di visioni e atteggiamenti più facilmente spostabili su posizioni estreme. Lo strumento di questa azione è il cosiddetto dark web, ossia quella parte non trasparente della rete in cui si può coltivare impunemente ogni tipo di crimini, fra cui l’allestimento di flussi informativi nominativi, che arrivano esclusivamente a determinati individui, nell’ordine delle centinaia di migliaia. A ognuno un canale differente che parla esclusivamente a quell’interlocutore.
Oggi il quadro è reso ancora più pressante e minaccioso proprio dall’irruzione sulla scena di dispositivi intelligenti che possono, automaticamente, monitorare i comportamenti degli elettori prescelti, inviando loro pacchetti di informazioni che agiscono sulle specifiche sensibilità. Queste tecniche sono plausibili, ovviamente, in virtù di una composizione sociale sempre più frammentata, dove ogni individuo coltiva la propria differenza e non valorizza le identità comuni. In questa frantumazione, che ha spiazzato la sinistra in tutto il mondo, togliendo dallo scacchiere politico i suoi strumenti più tradizionali, dalla forma partito alle solidarietà verticali, la destra si trova a far coincidere il proprio messaggio agitatorio con linguaggi propagandistici sempre più acuminati ed efficaci.
Non è certo un caso che assistiamo oggi a una radicalizzazione di quell’area moderata e conservatrice più esposta alle sollecitazioni individuali. Se guardiamo ai due Leitmotiven della campagna di Trump – da una parte la corruzione delle élite amministrative, dall’altra la minaccia dell’immigrazione clandestina – cogliamo la materialità e gli interessi di quel movimento sovversivo che fa sì che un uomo, accusato dei reati più gravi nel codice politico americano, possa poi permettersi di rovesciare le accuse contro le istituzioni che le hanno sollevate. Un fenomeno che noi italiani dovremmo conoscere bene. Berlusconi, finché ebbe in mano la bandiera della rivolta bottegaia contro i vincoli dello Stato sociale, si permise ogni nefandezza, rimanendo al riparo da accuse e condanne. Queste arrivarono piuttosto quando quella bandiera gli cadde di mano, vuoi per la crisi economica vuoi per la concertazione europea.
Nel mondo questo copione (che Gramsci aveva definito come il sovversivismo dei ceti dirigenti) si sta ripetendo puntualmente: dall’Ungheria di Orbán al Brasile di Bolsonaro, all’Argentina di Milei e all’Italia di Meloni – vediamo come siano proprio i segmenti portanti dei ceti produttivi e professionali – pensiamo nel nostro Paese ai tessuti economici di Veneto e Lombardia – a guidare la rivolta reazionaria, che arriva a sfidare totem come la compatibilità con le economie forti europee.
Gli Stati Uniti, Paese guida del capitalismo occidentale, si trovano oggi proprio sul crinale più esposto. Il mosaico comunitario che si era sempre composto nel dualismo fra repubblicani, conservatori, ma leali alle regole globali, e democratici, liberal, ma garanti del dominio imperialista, è già saltato. La pancia dell’America, in cui operai bianchi e ceto medio locale marginale, blocco cementato dal fondamentalismo evangelista, si mobilita dietro le suggestioni rivendicative del pifferaio magico, e trova in Trump un modo per essere contabilizzata, per potere stare sulla scena. Non è un caso che ritorni sugli schermi uno dei suoi manifesti ideologici: il film Il cacciatore di Michael Cimino, uscito in un momento in cui l’onta del Vietnam era ancora incombente sulla gioventù a stelle e strisce.
Siamo ora alla resa dei conti: una destra populista e isolazionista, che brandisce lo slogan “America First” come una clava, nei confronti delle rendite di posizioni europee, mira a ridisegnare l’intero assetto geopolitico, trovando convergenze con quel gigantesco conflitto d’interessi che sono le intese con Putin e Xi. Il governo più keynesiano degli ultimi anni, quello di Biden, si trova senza base sociale credibile, così come oggi si trova del tutto sguarnita la sinistra riformista, senza più il patto fra produttori e proprietari. I ricchi illuminati – i primi – non hanno parola sulla scena politica; i poveri più estremi – gli ultimi – non votano, e quando votano si camuffano da integrati cedendo al miraggio del successo personale. In mezzo la vecchia alleanza riformatrice di donne, giovani, e minoranze inserite si sta slabbrando. Su loro preme una gerarchia sociale guidata dall’aristocrazia del calcolo. Ogni impresa, ogni professionista, ogni scuola o comunità, si sente in balia di forze insondabili, che non riescono ad afferrare o condizionare. Questa paura di un mondo solo dei talenti e degli eredi spinge le plebi a irrompere sulla scena, anche a costo della loro distruzione (come scriveva Hannah Arendt nel suo saggio sui totalitarismi fra le due guerre).
Sarebbe davvero il caso che quella parte di mondo che comprende come questa destra totalitaria e peronista ci stia portando al disastro trovi il coraggio e la lucidità per partecipare alle elezioni americane, che mai come quest’anno, sono elezioni del mondo. Al centro, bisogna scompaginare la tranquillità delle interferenze digitali, integrando alle norme appena approvate in Europa e a Washington, una vera mobilitazione sociale che animi uno spazio pubblico attivo e connettivo, dove rendere trasparenti le interferenze organizzate. Ma non basta l’emergenza, bisogna aprire cantieri sulle nuove forme di lotta politica, sulla forma partito, sulla democrazia al tempo delle protesi digitali. Su questi temi il silenzio diventa oggi complicità – proprio come nel 1933.