La notizia è semplice solo in apparenza, perché dietro quella espressione “divorzio consensuale” usata dai ministri del governo Meloni per definire l’operazione di salvataggio di Acciaierie d’Italia (ex Ilva) ci sono diverse questioni che vanno interpretate e rimangono aperte. E probabilmente rimarranno aperte anche dopo la ratifica della soluzione finale. L’obiettivo di tutti sembra essere quello di evitare la chiusura definitiva di quella che – nonostante una crisi che si trascina da anni – rimane la più grande acciaieria d’Europa. In gioco ci sono almeno ventimila posti di lavoro e un intero assetto dell’industria manifatturiera italiana, visto quanto è ancora centrale e strategico l’acciaio in diverse filiere produttive.
Una grande questione che rimarrà aperta riguarda invece la salute e l’ambiente, soprattutto in una città come Taranto, martoriata dall’inquinamento dei fumi rossi dovuto alla mancanza di investimenti per le bonifiche e alla mancata scelta della riconversione delle produzioni verso una sostenibilità industriale che – come dimostrano altre esperienze europee e mondiali – non è una farneticazione buonista degli ecologisti. Una strada che si sarebbe dovuta (e potuta) imboccare una ventina di anni fa. Oggi il governo Meloni parla di un polo green, che dovrà essere all’avanguardia in Europa. Ma siamo per ora agli slogan ad effetto.
Iniziamo quindi dalla parte semplice della notizia: divorzio consensuale significa la fine dell’epoca ArcelorMittal, la multinazionale che aveva acquisito gli stabilimenti dell’acciaio dopo il disastro della privatizzazione Riva, che acquisì l’Italsider. Siamo al capolinea. Gli ospiti ingrati devono essere accompagnati all’uscita, evitando di farli arrabbiare troppo. Dopo l’incontro-scontro tra il ministro Fitto e i rappresentanti della proprietà indiana-francese, la palla è passata al ministro Urso che ha scelto, da subito, la strada dell’aumento della proprietà pubblica nel pacchetto di controllo. Rispondendo a un question time in Senato, Urso ha attaccato i governi precedenti (in particolare quello giallo-verde, che aveva visto in prima linea il ministro Di Maio) e non ha risparmiato critiche pesanti alla gestione ArcelorMittal. La multinazionale non ha investito un euro nelle fabbriche italiane dell’acciaio per la modernizzazione e il risanamento, mentre perdeva progressivamente quote di mercato e livelli di produzione. Nel 2023 la produzione si attesterà sotto i tre milioni di tonnellate, come nel 2022, molto distanti dall’obiettivo minimo che avrebbe dovuto essere di quattro milioni, per poi risalire a cinque milioni. “In questi anni la produzione si è progressivamente ridotta in spregio agli accordi sottoscritti – ha detto Urso –, la produzione è stata mantenuta bassa, lasciando campo libero ad altri attori stranieri che hanno aumentato la loro quota di mercato”.
Rotto il rapporto, ora il governo deve evitare un’amministrazione straordinaria imposta (per questo l’espressione “consensuale”) per evitare l’indennizzo per ArcelorMittal, e chiudere decentemente pendenze e rivendicazioni. Su questo è in atto un serratissimo confronto fra il team legale della multinazionale e quello del socio pubblico Invitalia. L’incontro decisivo è previsto per martedì 16 gennaio, mentre il nuovo incontro con i sindacati è stato fissato per giovedì a Palazzo Chigi. E fin qui siamo al minimo della decenza, visto che non bisogna essere nazionalisti per auspicare una politica industriale nazionale. Questo spiega i giudizi positivi dei sindacati.
I segretari generali delle sigle dei metalmeccanici hanno infatti applaudito all’uscita di scena dello “straniero”, e hanno apprezzato la volontà del governo di far crescere la quota del controllo pubblico dell’acciaio. “Finalmente ci siamo”, ha commentato il segretario generale della Fiom Michele De Palma: “Il governo ha deciso di non tornare più indietro, proseguendo sulla strada per assumere la gestione dell’azienda. Abbiamo detto all’esecutivo che la garanzia per il futuro è l’occupazione di tutte le lavoratrici e i lavoratori. Non possono pagare il prezzo delle scelte sbagliate di manager e proprietà”.
Se l’operazione andrà in porto, le Acciaierie saranno salve. Ed è qui che si passa da un primo livello della notizia a un secondo, quello più hard. All’enigma. Quali acciaierie? Si avrà il coraggio e la forza finanziaria di percorre la strada della decarbonizzazione? Si avvererà quello che a oggi si palesa solo come un miracolo: la conciliazione del mantenimento dei posti di lavoro con la tutela della salute dei lavoratori e dei cittadini di Taranto? Per Legambiente (ma sembra per ora abbastanza isolata), la riconversione dell’industria e del settore siderurgico passano, necessariamente, per un incremento e una veloce transizione. D’altra parte, le tecnologie sostenibili non sono premonizioni, ma già realtà in diverse parti del mondo. Una di queste è proprio l’India. Siamo quindi al paradosso: le tecnologie più verdi per produrre acciaio sono indiane. Ma gli indiani, che hanno sfruttato Taranto, non hanno rischiato un soldo per la riconversione. Non c’è da fare neppure tanto sfoggio di nazionalismo visto che anche a sinistra – su questo piano – i ritardi sono enormi e colpevoli, come ha spiegato a “terzogiornale” il deputato Pd Ubaldo Pagano: vedi qui.