In Ecuador le crisi sono una costante da anni: hanno riguardato la politica, le proteste sociali, specialmente quelle di origine indigena (vedi qui) e la sicurezza. La violenza della criminalità ha iniziato ad avere ripercussioni pubbliche nel febbraio 2021, quando ci fu un massacro all’interno della prigione più violenta, la cosiddetta Penitenciaría del Litoral, a Guayaquil, la città più pericolosa, oltre che la più popolosa del Paese. In quella occasione almeno settantanove detenuti furono uccisi. La crisi era iniziata durante la pandemia, quando le bande criminali avevano guadagnato terreno con l’obiettivo di prendere il controllo dell’area metropolitana di Guayaquil, porto chiave per le rotte internazionali del traffico di droga che partono dalla Colombia e dalla regione andina alla volta degli Stati Uniti e dell’Europa.
All’origine delle violenze ci sono gli scontri tra i gruppi criminali per il dominio del territorio, favoriti dalla debolezza dello Stato. Tutto ha inizio dalle carceri in cui le bande si scontrano per il controllo dei centri di detenzione, per il dominio sulle rotte nazionali e internazionali della droga, e per il controllo della vendita di stupefacenti a livello locale. Nel settembre del 2021 (vedi qui), 119 prigionieri furono uccisi in diversi centri penitenziari, alcuni persino decapitati. In totale, circa diciotto gli scontri violenti all’interno delle carceri, con un bilancio di più di 450 detenuti morti negli ultimi tre anni. E l’anno da poco concluso è stato il più violento nella storia dell’Ecuador. Sono stati più di 7.600 gli omicidi, ben al di sopra dei 4.600 del 2022, che aveva registrato già il doppio dei 2.100 omicidi del 2021. A Guayaquil si trovano le due prigioni più popolate dell’Ecuador, la Penitenciaría del Litoral e la Penitenciaría del Regional, all’interno di uno stesso complesso penitenziario. I due centri ospitano diecimila detenuti, più di un quarto dell’intera popolazione carceraria. I detenuti gestiscono i quindici padiglioni, e da lì, oltre a controllare il traffico di droga, decidono chi entra e chi no. Hanno finanche le chiavi delle loro celle. È così che sono arrivati a seminare il terrore nell’intero Paese, com’è successo martedì 9 gennaio, in una giornata che ha lasciato almeno tredici morti sul terreno, tra cui alcuni poliziotti.
Sono sette le bande criminali che hanno il potere all’interno delle prigioni. Nei tre padiglioni della Regional comandano Los Choneros, il cui capo è José Adolfo Macías, alias Fito. Negli altri dodici padiglioni dominano i Chone Killers, Águilas, Fatales, Latin Kings, Lobos, Tiguerones e la Mafia. Ci fu qui il primo massacro carcerario, il 23 febbraio 2021. Successivamente, la guerra tra le bande è andata intensificandosi, mettendo in scacco gli ultimi tre governi, che non sono riusciti a riprendere il controllo delle prigioni. Nella Regional, i detenuti vendono pollo arrosto, salchipapa, ovvero patate fritte e salsicce, e morocho, una bevanda dolce a base di mais morocho a cui sono aggiunti latte, cannella, zucchero e uva passa. Si tratta di vere e proprie imprese create all’interno dei centri di detenzione per gli ospiti delle strutture. La domanda che ci si può fare è come entrino i polli, le bombole di gas, le armi, le bombe, le droghe, l’alcol.
La risposta è facile: va ricercata nella corruzione del sistema gestito dallo Snai (Servizio nazionale di attenzione integrale agli adulti privati della libertà e agli adolescenti trasgressori), una emanazione del governo. La Commissione interamericana dei diritti umani, dopo aver visitato il Paese nel 2021, ha indirizzato al governo allora in carica un documento in cui dichiara che la “corruzione senza precedenti all’interno delle prigioni, dipende dall’abbandono del sistema penitenziario da parte dello Stato da anni, così come dall’assenza di una politica criminale globale”: una situazione che ha provocato un “autogoverno”, cioè il controllo all’interno dei centri di detenzione da parte delle stesse persone detenute.
La violenza in Ecuador si è intensificata il 7 gennaio scorso, dopo la fuga dal carcere di Fito, il leader criminale più pericoloso, capobanda del gruppo Los Choneros, a cui le autorità attribuiscono legami con il cartello messicano di Sinaloa, che stava scontando una condanna a trentasei anni per omicidio, traffico di droga e altri reati. Lunedì 8 gennaio, nel pomeriggio, il presidente Daniel Noboa ha decretato il suo primo stato di emergenza, ed è iniziata la sfida delle bande allo Stato. Gruppi criminali hanno cercato di prendere la più importante università pubblica di Guayaquil e l’ospedale Teodoro Maldonado. Nelle strade sono apparsi i primi veicoli inceneriti, esplosioni e incendi si sono verificati in diverse zone del Paese; i pandilleros hanno lanciato delle bombe molotov e hanno preso in ostaggio alcuni poliziotti. Il caos ha preso insomma il sopravvento. Sui social network, del resto anch’essi caotici, le informazioni false hanno cominciato a circolare. Infine, il 9 gennaio, un gruppo di uomini incappucciati ha fatto irruzione in una emittente televisiva di Guayaquil, che trasmetteva in diretta il telegiornale di metà pomeriggio. Un attacco senza precedenti, un salto nella spirale criminale. La giornata, d’altronde, era iniziata con una sequenza di trenta atti violenti in varie parti del Paese, con poliziotti rapiti, rivolte, incendi di veicoli, preceduti dalla presunta evasione dalle prigioni dei capi di altri gruppi criminali.
Rispetto ai vari stati di emergenza decretati dai suoi predecessori, Noboa ha riconosciuto l’esistenza di un “conflitto armato interno”, disponendo l’intervento delle forze militari. La popolazione ecuadoriana è esausta, invoca risultati, mentre pare essere sempre più popolare l’esempio del presidente salvadoregno, Nayib Bukele (vedi qui), che è riuscito a indebolire le maras ma al costo di un profondo deterioramento dei diritti umani e delle libertà fondamentali nel Paese centroamericano.
Noboa è entrato in carica un mese e mezzo fa, dopo una campagna elettorale in cui aveva promesso di sradicare la violenza con il suo piano Fénix, una strategia di sicurezza di cui non sono stati rivelati dettagli, e che finora è apparsa inconsistente. Dopo due mesi di governo, con quaranta omicidi per centomila abitanti, della politica di sicurezza e penitenziaria si è saputo molto poco. Si consideri che l’Ecuador ha venti prigioni e 31.300 detenuti, sebbene la loro capacità sia di 27.500. Le carceri sono quindi sovraffollate: Noboa ha perciò dichiarato che per un migliaio di stranieri detenuti si sta pensando a provvedimenti di espulsione. Aveva promesso di spostare le prigioni in navi al largo dell’Ecuador per tenere lontani i capi delle bande, e di costruire stabilimenti di massima sicurezza; ma la crisi in corso è arrivata prima di qualsiasi soluzione. Di fatto finora non è stato possibile rompere il legame diretto tra le prigioni e la violenza.
Il giovane uomo d’affari (36 anni) ha vinto le elezioni in ottobre (vedi qui), con la promessa di porre fine alla polarizzazione che, negli ultimi anni, ha diviso il Paese tra il correismo e l’anti-correismo. Per la maggioranza incarna il centrodestra, anche se lui si definisce di centrosinistra. È un candidato pro-aziende, che promette di abbassare le tasse, sebbene nel contempo abbia parlato di aumentare la spesa sociale. Da quando è entrato in carica i suoi messaggi sono stati minimi, ed è ancora sconosciuto alla stragrande maggioranza dei cittadini.
Il decreto di stato di emergenza durerà sessanta giorni. La stessa misura è stata applicata venti volte dal suo predecessore Guillermo Lasso. Entra in vigore un coprifuoco che vieta ai cittadini di muoversi tra le 23 e le 5 del mattino. Inoltre, viene istituita una zona di sicurezza intorno ai centri carcerari per permettere la presenza di militari e le operazioni di controllo dei veicoli che attraversano il perimetro delle prigioni. Il presidente ha ringraziato i governi che intendono sostenere l’Ecuador. Quello degli Stati Uniti ha espresso la sua “estrema preoccupazione” e offerto un sostegno al governo Noboa. Lo stesso hanno fatto l’Argentina, la Bolivia, la Colombia, il Paraguay e il Perù. Infine, l’ex presidente Rafael Correa, condannato definitivamente a otto anni per tangenti, ha espresso dall’esilio belga la propria solidarietà a Noboa, dichiarando che in questo momento tutto il Paese deve essere unito nella battaglia contro il crimine organizzato.