Serbia Stato cuscinetto? Sarebbe la soluzione più saggia per evitare quello che è successo tra Russia e Ucraina: la migliore per favorire un processo di distensione nei Balcani. Lo diciamo perché il presidente Aleksandar Vucic, leader del Partito progressista serbo di stampo nazionalista – già primo ministro tra il 2014 e il 2017, e vincitore lo scorso 17 dicembre sia alle elezioni legislative sia a quelle locali – è certamente vicino alla Russia e in buoni rapporti con la Cina; ma nello stesso tempo non vuole perdere di vista l’Unione europea. Un’ambiguità che non piace alla principale forza di opposizione, l’europeista “Serbi contro la violenza”, che ha fortemente contestato il voto, con manifestazioni di piazza a cui hanno fatto seguito molti arresti. Il partito di Miroslav Aleksic non ha riconosciuto il risultato elettorale, denunciando presunti brogli e irregolarità.
In trentotto seggi il voto era stato ripetuto il 30 dicembre scorso, registrando, anche in questo caso, un’affermazione di Vucic, contestata ancora una volta dagli avversari. Se si esclude il presidente ungherese Viktor Orbán (oltre alla Russia e alla Cina), gli Stati dell’Unione europea hanno evitato di congratularsi con Vucic, pur essendoci, a nostro avviso, le condizioni per intraprendere la via di una collaborazione, perché la Serbia potrebbe giocare un ruolo di stabilizzazione importante in un’area geopolitica in fermento continuo: da un lato, per le smanie secessioniste dei serbo-bosniaci e, dall’altro, per l’irrisolto conflitto tra serbi e albanesi nel Kosovo.
Nel primo caso, circa un mese fa, è cominciato il processo al presidente della Repubblica serba (Republika Srpska), Milorad Dodik, accusato di avere introdotto una serie di leggi che limitano i poteri dell’autorità nazionale della Bosnia-Erzegovina (vedi qui). Il leader di Banja Luka non ha riconosciuto, e non ha rispettato, l’autorità e le decisioni dell’inviato internazionale dell’Onu, il tedesco Christian Schmidt, incaricato di garantire la pace nel Paese, raggiunta dopo gli accordi di Dayton del 1995, che stabilirono la divisione della Bosnia in due regioni semiautonome, appunto la Srpska e la Federazione croato-musulmana (Federacija Bosne i Hercegovine), rispettivamente con il 49% e il 51% del territorio.
Schmidt ha il potere di cancellare leggi e rimuovere funzionari considerati di ostacolo al mantenimento dello status quo. Proprio quello che sta facendo il leader serbo-bosniaco, che potrebbe essere condannato a cinque anni di carcere ed essere interdetto da ruoli politici. Dodik, che non riconosce l’autorità del Palazzo di vetro, ha definito quello in atto un processo politico. Il suo naturale punto di riferimento internazionale è la Russia (Dodik è amico personale di Putin) e, ovviamente, la Serbia. Questa, però, ha evitato finora un aperto sostegno ai propositi secessionisti della Republika Srpska, che resta comunque per Belgrado una naturale interlocutrice nella Bosnia-Erzegovina, tanto che Dodik avrebbe organizzato dei bus per garantire i voti dei propri compatrioti a Vucic: una irregolarità, secondo gli oppositori di “Serbia contro la violenza”, che infatti avevano chiesto per questo l’annullamento del voto. Allo stato attuale una riunificazione con Belgrado appare di difficile attuazione, anche per l’“europeismo” di Vucic. Ma “una Serbia forte e ricca è un prerequisito per la pace generale per tutti i Balcani – ha detto Dodik in una recente intervista di Letizia Tortello pubblicata sulla “Stampa” –, Vucic è il leader che rende la Serbia più forte e potente”.
Questo punto critico – eredità della guerra scoppiata nell’ex Jugoslavia nel 1991 e terminata nel 1995, con i già citati accordi di Dayton – si intreccia con quella del 1999, quando la Nato aveva bombardato Belgrado con il fine di creare un piccolo Stato kosovaro, a maggioranza albanese e minoranza serba, da allora in un perenne conflitto, che non si è trasformato in guerra vera e propria solo grazie alla presenza dell’Unmik (Missione di amministrazione ad interim delle Nazioni Unite in Kosovo) e dell’Alleanza atlantica. In questi venticinque anni che ci separano da quello che possiamo considerare un avviso a Russia e Cina (ricordiamo che fu bombardata l’ambasciata cinese a Belgrado, evento inimmaginabile ora), se ne sono viste di tutti i colori, con scontri continui e morti da entrambe le parti (vedi qui), come nello scorso settembre, quando un gruppo di serbi a Banjska attaccò la polizia kosovara, con un bilancio finale di quattro morti, tre del commando e un poliziotto.
L’ultima puntata di questo conflitto ha riguardato le targhe, che, lungi dall’essere un semplice problema burocratico, è stato il simbolo di una “guerra a bassa intensità” che non sembra conoscere fine. Tuttavia, la recentissima decisione di Vucic di lasciare entrare in territorio serbo anche le automobili con targhe kosovare può porre le premesse per risolvere una disputa annosa tra Belgrado e Pristina. Prima dell’intesa, i veicoli provenienti dalla Serbia o dal Kosovo potevano attraversare il confine a condizione di apporre degli adesivi sugli emblemi nazionali visibili sulle targhe, mentre il governo del Kosovo aveva obbligato i serbi kosovari a usare targhe automobilistiche kosovare al posto di quelle serbe.
Petar Petkovic, capo dell’Ufficio governativo serbo per il Kosovo, ha immediatamente precisato che la decisione presa è finalizzata solo a risolvere problemi pratici: ma è evidente che, pur non essendo ovviamente un riconoscimento della Repubblica del Kosovo – peraltro disconosciuta dalla maggior parte delle nazioni del pianeta, ivi compresi alcuni Paesi dell’Unione europea, a partire dalla Spagna e dalla Grecia –, può essere letta come un’apertura. È noto che una delle condizioni poste da Bruxelles, per l’ingresso della Serbia nell’Unione, è proprio il riconoscimento del piccolo Stato balcanico. Come abbiamo detto, gestire lo scenario balcanico, da Banja Luka a Pristina passando per Belgrado, richiederebbe una grande saggezza politica. La disponibilità di Vucic a dialogare con Bruxelles, pur mantenendo lo sguardo rivolto a Est, può essere un elemento di stabilizzazione dell’area piuttosto che di conflitto. Certo, il perdurare della guerra tra la Russia e l’Ucraina non aiuta, ma sarà compito dell’Europa non escludere la Serbia dal proprio orizzonte geopolitico. È proprio questo, tuttavia, il problema. La mancanza di un’autonomia europea dagli Stati Uniti non gioca a favore di una scelta diplomatica inclusiva.