Poche ore ancora e il governo potrebbe annunciare ai sindacati, convocati l’11 mattina a Palazzo Chigi, l’amministrazione straordinaria e il commissariamento delle Acciaierie d’Italia, che controlla l’ex Ilva di Taranto e le altre aziende del gruppo sparse soprattutto al Nord. In totale, tra diretti e indiretti, ventimila lavoratori. È tutto ancora molto incerto. Il gruppo franco-indiano, ArcelorMittal, passando alla quota di minoranza della società vorrebbe avere la stessa governance al 50% della società, la cui maggioranza torna a essere pubblica (Invitalia). I sindacati si augurano che l’amministrazione straordinaria del gruppo contempli la messa in sicurezza dei lavoratori degli appalti, oltre al cronoprogramma di fuoriuscita dal gruppo di ArcelorMittal e la garanzia che tutto ciò avvenga garantendo la continuità produttiva degli impianti. Ne abbiamo parlato con il deputato del Pd, Ubaldo Pagano, eletto in Puglia.
Vale ancora la pena, onorevole Pagano, impegnare il parlamento per investire capitali per un “mostro” che produce acciaio e veleni?
Ne vale la pena se vengono rispettati, come prima e insormontabile condizione, proprio l’ambiente e la salute. Oggi la fabbrica versa in condizioni pietose anche per l’incuria e l’indifferenza con cui il socio privato ha voluto portare avanti la gestione. E se abbiamo ancora episodi emissivi incontrollati, se i livelli di benzene e di altre sostanze inquinanti stanno crescendo, malgrado la drastica riduzione della produzione, lo si deve proprio a chi in questi anni si è rifiutato di investire, venendo meno agli impegni presi con lo Stato.
Lei, rappresentante di quel territorio, è il capogruppo del Pd in commissione Bilancio della Camera. Ci eravamo illusi che i precedenti governi, con l’istituzione del ministero della Transizione ecologica, avessero a cuore la compatibilità ambientale delle grandi industrie di trasformazione delle materie prime. Invece il miliardo di euro stanziato per la decarbonizzazione dell’Ilva è stato “scippato” dal ministro Fitto e destinato ad altro capitolo di spesa. Da rappresentante di quel territorio si sente tradito?
Assolutamente sì, e penso che si tratti di un sentimento condiviso da tutta la comunità tarantina. È un tradimento che ferisce più di qualsiasi altro per i grandi sforzi che avevamo fatto con gli ultimi due governi per rimettere l’ex Ilva sui binari giusti, dopo diverse stagioni in cui anche la mia forza politica ha sbagliato l’approccio alla soluzione del problema. Finalmente, dopo decenni di gravissimi soprusi subiti, nell’ipocrita retorica di tutto l’arco costituzionale, Taranto poteva guardare al suo futuro con fare completamente diverso. Per questo abbiamo protestato tanto contro le decisioni del ministro Fitto. Cancellare la prospettiva della decarbonizzazione con un tratto di penna è stato il peggior colpo che si potesse infliggere alla città e alla sua gente.
Tra Arsenale militare, impianti chimici e acciaieria, Taranto è un concentrato di inquinamento ambientale. Le classi dirigenti, prima della caduta del Muro di Berlino e della crisi della Prima Repubblica, avevano barattato lavoro al Sud con impianti pericolosi per la salute dei lavoratori e la salvaguardia dell’ambiente. Questo “ricatto” ha ancora senso?
Credo che questo ricatto non abbia senso in sé, né in passato, né tantomeno adesso che siamo ampiamente consapevoli dei danni ambientali e sanitari provocati. Il presupposto imprescindibile della continuità produttiva dell’ex Ilva è far sì che non ci sia mai più alcun ricatto, e qualsiasi altro compromesso non può essere nemmeno preso in considerazione. Taranto deve diventare un modello di produzione alternativo dell’acciaio, pienamente compatibile con l’ambiente, punto e basta. Per farlo, occorrono due cose: una seria e preventiva valutazione del danno ambientale e sanitario e l’avvio dei progetti di decarbonizzazione.
È vero che l’acciaieria dà lavoro a dodicimila lavoratori, tra diretti e indiretti, e altri 1.600 ex Ilva in amministrazione controllata sono in cassa integrazione. Per dirla chiaramente, Taranto è una polveriera che può esplodere. Ma perché si è prolungata l’agonia della fabbrica, regalando al gruppo franco-indiano ArcelorMittal la filiera dell’acciaieria pubblica italiana, il quale ora pretenderà di uscire fuori dallo scenario italiano con un buon capitale di risarcimento?
Sul punto, c’è bisogno di chiarezza perché le nostre posizioni, in Puglia, sono state in principio molto diverse da quelle tenute dal Partito democratico nazionale, che all’epoca della gara per la gestione dell’acciaieria era guidato da Renzi. Con il presidente della Regione, Emiliano, che ha peraltro rischiato la sua carriera politica per combattere questa battaglia, il Pd pugliese ha sempre sostenuto che l’offerta dell’altra cordata (formata da Jindal, Arvedi e lo Stato attraverso Cassa depositi e prestiti) fosse migliore sotto molti punti di vista, a partire dal forte orientamento per i progetti di ambientalizzazione e di decarbonizzazione degli impianti. Sfortunatamente, non fummo ascoltati, e solo con la segreteria di Nicola Zingaretti il Partito democratico ha sposato definitivamente la nostra linea. È da allora che tutto il nostro partito chiede di intervenire con intransigenza contro un socio privato, ArcelorMittal, che, sin dall’inizio, ha dimostrato di volere tenere sotto scacco l’ex Ilva per proteggere i propri interessi economici. Il governo Meloni si è fatto portare a spasso per più di un anno, continuando a regalare soldi pubblici, malgrado fosse già chiaro da un pezzo che saremmo arrivati alla situazione che viviamo oggi.
Torniamo alla decarbonizzazione. Un progetto da quasi cinque miliardi di euro, che avrebbe garantito bonifica del territorio, produzione “pulita” di acciaio, con sistemi di forni elettrici non inquinanti, e lavoro per migliaia di lavoratori. Perché è saltato?
Ricordo innanzitutto che si era già svolta una gara pubblica per affidare i lavori per la realizzazione dell’impianto per il preridotto. Ciò detto, a voler pensare “bene” è saltato per l’inerzia del governo Meloni, per tutto il tempo che si è perso dal suo insediamento. A voler pensare “male”, invece, dobbiamo cercare le cause di questo fallimento nello scontro che si è consumato tra i ministri Urso e Fitto, fermo restando che il primo era ed è competente per materia a decidere, mentre il secondo è solo interessato a estendere il proprio controllo sui dossier più importanti.
Oggi l’ex Ilva produce appena tre milioni di tonnellate di acciaio contro i dodici che potrebbe produrre a pieno regime. I proprietari franco-indiani vogliono andarsene. Se nella stagione della guerra fredda era comprensibile che ogni Paese fosse autosufficiente nella produzione di beni strategici, oggi con la globalizzazione e la scomposizione dei “blocchi”, non è venuta meno questa necessità? Insomma, il carbone e gli altri minerali per produrre acciaio dobbiamo comunque importarli…
Ciò che dice è in parte vero, ma credo che il ragionamento da fare sia un po’ diverso. La nostra economia è basata su una imponente componente manifatturiera. Basti pensare al settoredellecostruzioni, dell’automobilistica o della componentistica. Paradossalmente, con la globalizzazione, cresce l’esigenza di avere una filiera produttiva che non debba dipendere dalle condizioni geopolitiche internazionali o dagli umori del dittatore di turno. E anzi, alcune produzioni che vivono della concorrenza sleale di alcuni mercati dove non esistono tutele per i lavoratori e rispetto dell’ambiente e della salute devono essere messe nelle condizioni di avere una protezione che certifichi una produzione rispettosa di quei principi di civiltà. Altrimenti ci consegneremmo all’ipocrisia riportata da tante inchieste giornalistiche, che ci fanno vedere le condizioni inumane con cui si lasciano produrre, in Paesi in via di sviluppo, beni che l’Occidente consuma. Magari così non si vede il problema in casa, ma si sta contribuendo a straziare l’ecosistema in altre parti del mondo.
Come si sta muovendo il governo Meloni? Aveva lasciato lo spiraglio aperto all’ipotesi di decarbonizzazione dell’ex Ilva, e invece sembra incapace di proporre un progetto che abbia una prospettiva realizzabile.
Finora ha commesso molti errori, ma la tanto agognata mossa per acquisire il controllo di maggioranza pubblico dell’azienda alla fine c’è stata. Ora c’è da augurarsi che non si cambi idea e non si torni ad assecondare una nuova follia del ministro Fitto. Adesso il governo chiarisca dove prende i soldi per la decarbonizzazione, e quindi per lo spegnimento dell’area a caldo che ha reso Taranto “terra di sacrificio”. Se il governo andrà dritto, il Pd è pronto a sostenerlo in questa partita.