Ricordare Jacques Delors, deceduto a 98 anni il 27 dicembre 2023, significa rievocare un decennio storico, quello dei suoi tre mandati, dal 1985 al 1995, fondamentale per il processo d’integrazione europea. Prima di lui, il presidente della Commissione era poco più di un anonimo alto burocrate europeo; fu lui a dare a questo ruolo la dignità e lo status, poi riconosciuto da tutti, pari a un capo di Stato e di governo. Dopo essersi insediato alla guida della Commissione (con un sostegno del cancelliere tedesco Helmut Kohl molto più forte e convinto di quello del presidente francese François Mitterrand), Delors si pose subito il problema di come rilanciare il processo d’integrazione europea – allora in grave crisi dopo il primo grande successo dell’unificazione doganale, diciassette anni prima – e valutò tre possibili strade da percorrere: puntare sulla difesa comune, o sull’unificazione monetaria, o sulla riforma delle istituzioni europee.
La risposta che si diede, e cominciò ad applicare immediatamente, fu quella di rafforzare le procedure decisionali delle istituzioni come mezzo per conseguire un altro obiettivo, quello della trasformazione del mercato comune in un vero e proprio mercato unico europeo (che l’unione doganale da sola non poteva garantire) entro il 1992. Un obiettivo che gli apparve in quel momento molto più realistico, e più consensuale da parte degli Stati membri, rispetto alle altre due strade, la difesa e la moneta, già tentate in passato senza successo. La pianificazione iniziale del nuovo obiettivo strategico avvenne attraverso due documenti: il rapporto sul costo della “non Europa”, che dimostrava i vantaggi economici dell’eliminazione delle barriere al mercato unico allora esistenti, e il primo “Libro bianco”, che individuava tutte le misure legislative (oltre duecento) necessarie per portare a termine la missione. Il secondo obiettivo, quello della moneta unica, non venne accantonato, ma messo subito in cantiere per essere proposto più tardi, sull’onda del successo del primo, e inserito poi nei negoziati di Maastricht.
Un vero capolavoro di Delors fu quello di riuscire a convincere gli Stati membri a compiere, approvando l’Atto unico europeo da lui proposto, una prima vera modifica in profondità dei Trattati di Roma del 1957, che avevano istituito le Comunità europee (Mercato comune ed Euratom), trent’anni dopo. L’Atto unico, che tra l’altro ampliò le poche competenze comunitarie allora esistenti (essenzialmente la politica agricola e il mercato comune) ai settori della ricerca e dell’ambiente, introdusse il voto a maggioranza qualificata in Consiglio per tutte le materie relative al completamento del mercato unico, ponendo termine alla paralisi determinata dal principio dell’unanimità, imposto dalla Francia gollista dopo la “crisi della sedia vuota”. E affrontò anche il “deficit democratico” della Comunità, con l’attribuzione al parlamento europeo dei poteri di “cooperazione”. In pratica, veniva richiesta una decisione unanime del Consiglio per approvare una sua “posizione comune” su un atto legislativo proposto dalla Commissione, se il parlamento l’aveva bocciata. Più tardi, con Maastricht, verrà introdotta la co-decisione, che attribuirà finalmente un ruolo di co-legislatore e il potere di veto al parlamento europeo, nelle materie sottoposte alle decisioni a maggioranza qualificata in Consiglio.
Oltre ad aver pianificato e attuato il mercato unico e il programma Erasmus per gli studenti, posto le basi dell’euro e contribuito in modo determinante al Trattato di Maastricht che ha fondato l’Unione europea (tutti elementi ricordati dalla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, nella dichiarazione in memoria del suo grande predecessore), Delors svolse un ruolo essenziale anche nella ridefinizione del quadro finanziario comunitario, con un aumento significativo delle risorse in bilancio, portate all’1,20% del Pil complessivo degli Stati membri con il “Pacchetto Delors I” (1988-92) e all’1,27% con il “Pacchetto Delors II” (1993-99), e con un forte incremento dei fondi per quella che chiamava “la coesione economica e sociale”, ovvero le politiche regionali e strutturali e il Fondo di coesione, vista come una contropartita necessaria dell’unificazione del mercato interno.
Si deve all’intuizione e alla determinazione di Delors il cambiamento sistemico dell’impianto del bilancio comunitario, che da annuale diventò di medio termine (settennale), proprio a partire dai due “pacchetti” a lui intitolati. Questo ha evitato che continuasse a ripetersi ogni anno l’interminabile duro confronto tra gli Stati membri, nei negoziati finanziari che impegnavano e logoravano per mesi l’attività delle istituzioni.
Un altro elemento fondamentale, introdotto da Delors nelle politiche europee, fu l’attenzione alla dimensione sociale (a cominciare dal “Protocollo sociale” di Maastricht, in un primo tempo osteggiato da Londra, che ottenne di restarne fuori ma non poté bloccarlo). Inoltre, Delors perseguì e ottenne l’adesione e la partecipazione delle associazioni imprenditoriali e dei sindacati ai progetti integrazionisti (fu lui ad avviare il “dialogo sociale” tra imprese, sindacati e istituzioni europee). La dimensione sociale, che prevedeva tra l’altro un’armonizzazione degli strumenti di protezione dei lavoratori in caso di crisi e il contrasto alle spinte della globalizzazione a delocalizzare le attività produttive, è stata tuttavia una delle sue opere incompiute. Durante la crisi dell’eurozona, quando ormai da quasi vent’anni era fuori dai giochi europei, ricordò la sua frustrazione per non essere riuscito a fare accettare agli Stati membri anche degli indicatori sociali, come le soglie di disoccupazione, da rispettare con lo stesso rigore applicato ai parametri di Maastricht dell’Unione monetaria.
Un secondo progetto incompiuto fu quello della dimensione economica dell’unione monetaria. Nelle Mémoires del 2004, Delors rievoca il suo disappunto per il modo in cui venne negoziato, nel 1996-97, il Patto di stabilità, voluto dalla Germania come principale strumento di controllo e gestione dei bilanci degli Stati membri; uno strumento che, pur menzionando anche la crescita nel suo stesso titolo, era completamente focalizzato sulla sola stabilità finanziaria, e non era stato completato ed equilibrato da un “patto per il coordinamento delle politiche economiche”, come lui aveva proposto, restando inascoltato. Qui, in realtà, la colpa fu un po’ anche sua: se non avesse rinunciato alla corsa come candidato socialista all’Eliseo, all’inizio del 1995, nonostante le aspettative e le forti probabilità di vincerla, sarebbe stato probabilmente lui a concludere l’accordo sul Patto due anni dopo, al posto del presidente Jacques Chirac, che si accontentò di quel mero riferimento nominale alla crescita.
La parabola di Delors, in forte ascesa dal 1985 al 1992, subì una brusca frenata proprio in quel 1992, atteso come l’anno del trionfo, per il completamento del mercato unico, e parallelamente per la firma (a febbraio) del Trattato di Maastricht che avrebbe dato inizio alla successiva nuova stagione dell’Unione politica e della moneta unica. Il 1992 fu in realtà un annus horribilis per Delors, per la sua Commissione e per l’Europa intera. Mentre la guerra scoppiata nella ex Jugoslavia stava evidenziando tutte le carenze e la sostanziale impotenza dell’Europa in politica estera, il 2 giugno arrivò, inaspettata, la bocciatura dei danesi, con il 50,7%, alla ratifica del Trattato di Maastricht. E in un altro referendum, questa volta in Francia, il 20 settembre, il “sì” vinse con appena il 51 %, dimostrando un sostegno dell’opinione pubblica ai progetti integrazionisti ben inferiore alle attese. Da quel momento, cominciarono critiche e attacchi alla Commissione, che venne accusata (persino da Kohl, primo grande sponsor di Delors) di essere in preda a una “furia normativa” per la quantità eccessiva di regolamenti proposti. (Il Trattato di Maastricht venne poi approvato in un secondo referendum in Danimarca il 18 maggio 1993, ed entrò in vigore il primo novembre dello stesso anno).
Ancora: nel settembre del 1992, scoppiò una crisi devastante del sistema monetario europeo, con i mercati che attaccarono la lira, la sterlina, la peseta spagnola e la moneta irlandese, costringendole a svalutare rispetto al marco tedesco. Il franco francese si salvò solo perché fu sostenuto strenuamente dalla Bundesbank, che in realtà aveva in gran parte causato la crisi con il suo ostinato rifiuto di abbassare i propri tassi d’interesse, per tenere sotto controllo l’inflazione causata dall’unificazione tedesca. Un’ondata di scetticismo sembrò sommergere improvvisamente le prospettive della convergenza verso la moneta unica, da realizzare entro l’inizio del 1999.
Tutti questi venti contrari influirono sulla popolarità di Jacques Delors e dei suoi progetti, ormai spesso criticati come troppo ambiziosi o troppo “accentratori”. E giunse la sua sconfitta più dura: quella subita riguardo al suo secondo “Libro bianco” su “crescita, occupazione e competitività”, lanciato in grande stile nel 1993, come ultimo grande progetto del suo mandato, dopo il mercato unico e l’unione monetaria. Era una proposta neo-keynesiana di rilancio dell’economia (da finanziare con venti miliardi di euro per venti anni), basata tra l’altro su una emissione di debito comune europeo (otto miliardi di euro all’anno), oltre che da contributi del bilancio comunitario e prestiti della Banca europea per gli investimenti, per sostenere la costruzione di infrastrutture di trasporto e di telecomunicazione e una serie di altre iniziative economiche e sociali (una prefigurazione, sostanzialmente, di quello che sarebbe stato poi, ventitré anni dopo, il NextGenerationEU, in risposta alla crisi pandemica). Il piano, inizialmente accolto con favore da molti capi di Stato e di governo in Consiglio europeo, si scontrò subito con il tabù tedesco sul debito comune, e poi fu accantonato soprattutto per opera dei ministri delle Finanze dell’Ue, ormai orientati verso gli obiettivi di Maastricht di riduzione dei deficit pubblici, e poco propensi a fare delle eccezioni per i progetti europei. Ma le sconfitte non possono oscurare l’enorme spinta in avanti che Delors ha dato all’integrazione europea. Chi ha vissuto quegli anni a Bruxelles ricorda la fortissima motivazione che ispirava in tutto il personale della Commissione, dai direttori generali agli uscieri, e poi la sua “capacità pedagogica”, nei negoziati con gli Stati membri, negli interventi pubblici e discorsi al parlamento europeo; e nelle sue magistrali conferenze stampa, in particolare quelle prima di ogni vertice dei capi di Stato e di governo, lungamente preparate con il proprio staff e con le presidenze di turno del Consiglio, in cui immancabilmente lanciava i suoi nuovi progetti. Era un “ingegnere sociale”, come dicevano i francesi: il più grande leader politico che le istituzioni europee abbiano avuto, impegnato con grande ambizione e determinazione per far avanzare l’integrazione e il bene comune dell’Europa, senza mai avere secondi fini di politica nazionale e di tornaconto personale. Un gigante, di cui purtroppo si sente tanto la mancanza oggi.