Non è la necessità ma il suo contrario, il lusso, che pone alla materia viva e all’uomo i loro problemi fondamentali. Questo irritante e provocatorio aforisma di quell’esasperante critico della modernità che fu Georges Bataille ci aiuterà forse a comprendere, il prossimo anno, la mappa del consenso sociale sui diversi scacchieri. 24 è aritmeticamente la metà di 48. Un numero che, storicamente, ci riporta agli antichi bagliori dello scontro sociale in Europa. Il 1848 fu l’anno in cui gli Stati si trovarono assediati da un popolo in marcia guidato da un’abile borghesia, che scardinò le vecchie aristocrazie aprendo la via al proprio potere sul proletariato.
Marx, che pure aveva ben percepito quel sussulto dando alle stampe, con Engels, il Manifesto del partito comunista che avrebbe mutato radicalmente la dialettica politica in Occidente, nel suo Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, bollò ferocemente l’illusione, spiegando che “le cosiddette rivoluzioni del 1848 non furono che meschini episodi, piccole rotture e lacerazioni nella dura crosta della società europea”. Ma subito precisò, confermando il proprio talento di grande sociologo, che “esse rivelarono, al di sotto della superficie apparentemente solida, un mare di materia fluida, che aveva solo bisogno di espansione per far andare in pezzi continenti di roccia compatta. Rumorosamente e confusamente, esse annunciarono l’emancipazione del proletariato, cioè il segreto del secolo XIX e della rivoluzione di questo secolo”. E in queste due considerazioni troviamo il senso di quel tornante storico.
Oggi, alla vigilia di un più modesto ’24, ritroviamo in miniatura, cioè in una sorta di bonsai sociale, la stessa contraddizione: lotte che si rivelano nella loro dinamica “piccole rotture e lacerazioni nella crosta della società”: pensiamo alle sacrosante ma certo non epocali vicende dei riders o degli attori di Hollywood, che pure segnalano squilibri al centro degli imperi tecnologici. Queste turbolenze ci segnalano comunque un magma incandescente, che scava sotto una superficie apparentemente solida.
Il nuovo anno sarà un “anno islandese”, un anno dove l’equilibrio degli elementi naturali sarà costantemente ridefinito e riorganizzato, in cui le placche continentali entreranno in rotta di collisione e si registreranno terremoti improvvisi. Un discepolo della sociologia marxista, per essere fedele a se stesso, deve capire quali saranno le forze dominanti, chi spingerà i continenti a muoversi, per quali fini e verso quali approdi. Non ci travestiremo da frate Indovino; strizziamo piuttosto il lascito di Marx per cogliere almeno le tendenze che saranno protagoniste. Qui incontriamo nuovamente l’arroganza intellettuale di Bataille, che ci mostra una insopportabile quanto inesorabile tendenza: i poveri pensano da ricchi e le ambizioni prevalgono sui bisogni. Vediamo dispiegarsi questa contraddizione macroscopica leggendo i fenomeni politici oggi in avanzata: dall’Argentina di Milei all’Europa di Le Pen e della Meloni, fino al padre di tutti i populismi, Donald Trump. La destra si è presa i voti popolari non perché la sinistra si è ritirata, lasciando campo libero, ma perché, rinunciando al socialismo, cioè a una pretesa di mutare il potere e non solo il reddito, la sinistra si è inevitabilmente rifugiata nei diritti civili, un linguaggio del lusso e non dei bisogni. Il ’24 sarà un anno in cui si misurerà questa inversione di identità: se non posso conquistare il cielo, allora mi acconcio sul premio di produzione. Ma questa logica vede una strutturale incompatibilità fra le aree economicamente avanzate e una proposta anche flebilmente riformista. Nel lombardo-veneto italiano, nel 2022, Draghi è stato sconfitto dal volto peggiore del populismo leghista e neofascista: perché?
Il ’24 sarà un terribile anno elettorale: si voterà in molti Paesi, fra cui Stati Uniti ed Europa. Il magma della destra sbriciolerà la crosta moderata e blandamente progressista. A Washington non è tanto in discussione un’alternanza fra democratici e repubblicani, quanto piuttosto una nuova idea di impero in cui le proprietà prevalgono sulle istituzioni, ridisegnando persino i vincoli atlantici. Trump rappresenta una trasformazione della grande potenza americana in una super-compagnia delle Indie del Ventunesimo secolo, in cui i fatturati prevalgono sulla geopolitica. In ballo c’è lo stesso vincolo confederale. Parafrasando il titolo del saggio degli anni Settanta del dissidente sovietico Andrej Amalrik – Riuscirà l’Urss a sopravvivere fino al 1984? –, potremmo ora chiederci se gli Stati Uniti sopravvivranno all’anno che viene. In questo quadro, che senso ha parlare ancora di imperialismo americano, quando invece quel fenomeno è gestito direttamente da potenze private che prescindono o combattono il presidente democratico della Casa Bianca?
Le due guerre in corso sono altrettante cartine di tornasole di questa contraddizione: la destra reazionaria è dichiaratamente con Putin, che a sua volta è dichiaratamente con le forze neofasciste in Europa. Mentre a Gaza il fronte reazionario si divide fra il richiamo a un antisemitismo atavico, di marca prettamente nazionalista e fascista, e l’oltranzismo occidentalista del governo israeliano di destra. In entrambi i casi, vediamo un quadro artefatto da fattori psicologici più che politici: la sinistra può mai stare con i movimenti islamisti o con gli Stati autocratici russo e cinese, dove lo sfruttamento sociale e l’estrazione di valore da parte di élite predatorie non conosce limiti? Il mondo sarebbe più giusto se al tavolo ci fossero, con maggiore potere di influenza, l’Arabia saudita e Orbán insieme con Putin e Xi?
Questo interrogativo si porrà quando, dopo le elezioni europee, dovremo constatare che il ’24, oltre a essere la metà del ’48, è anche una frazione infinitesimale del ’68: in sostanza, sarà l’anno del declino culturale, oltre che politico, della sinistra europea? Come si reagirà a uno scenario in cui lo scontro è fra due destre? Forse, tornando ai fondamentali, alla barba di Marx, cogliendo quell’insegnamento che rimane efficace: quali sono le forze produttive dominanti? Come contrastarne i poteri aumentando la ricchezza sociale? Come rappresentare quel conflitto sociale che riformula il modello di sviluppo? Senza porci queste domande, rimarremo alla stanca successione di segretari e gruppi dirigenti che si sostituiscono l’uno dopo l’altro, fino a che l’ultimo spegnerà la luce.
Come indica un grande analista della società digitale, Bernard Stiegler, nel suo La società automatica (Meltemi), “ripensare il lavoro all’epoca degli automi che nel giro di vent’anni avranno liquidato la maggior parte degli impieghi è farne la funzione chiave di un nuovo concatenamento della politica, dell’economia e dei saperi”. L’intelligenza artificiale non è una magia nera né una forza invincibile, ma esattamente il luogo del nuovo conflitto sociale, dove riformulare un’idea di socialismo che per la prima volta – ce lo ricordava lo scomparso Toni Negri, in una riflessione libera dall’oppressione maniacale di quell’insurrezionalismo dogmatico che ha vanificato tutto il suo lavoro – rende stridente la centralità della proprietà, costringendo a fare i conti con un comunitarismo che è scelta di efficienza e non solo di condivisione.
Siamo a questo passaggio: riaprire la porta a un’idea di società nuova perché le forze produttive sono oggi coerenti con questo salto, riportando a sinistra i produttori e schiacciando a destra la rendita. Il ’24, dunque, come tappa intermedia di un prossimo ’48, in cui “socialismo o barbarie” non sia la vendetta del reduce ma la previsione di un algoritmo di classe.