Come previsto, il presidente uscente al-Sisi è stato rieletto per il terzo mandato consecutivo, con l’86,6% di voti; gli altri tre candidati si sono divisi la manciata di voti rimanenti. Le elezioni presidenziali anticipate (svoltesi dal 10 al 12 dicembre, ma il cui esito è stato reso noto definitivamente solo il 18) hanno visto un tasso di partecipazione del 66,8%, in aumento rispetto alle precedenti presidenziali del 2018 (40,8%). Al-Sisi rimarrà in carica per altri sei anni, fino al 2030, dopo alcune modifiche costituzionali approvate con il referendum del 2019, che hanno abolito il limite dei due mandati consecutivi e allungato retroattivamente la durata dei mandati stessi, da quattro a sei anni. Visti i precedenti, non è escluso che alla nuova scadenza Abdel Fattah al-Sisi diventi presidente a vita – e in fondo lo è già adesso, impedendo l’emergenza di qualsiasi rivale politico. Il generale al-Sisi è al potere dal 2013, con un colpo di Stato militare e la destituzione del presidente eletto, Mohamed Morsi, esponente del fondamentalismo islamico dei Fratelli musulmani.
La campagna elettorale ha visto la massiccia presenza del presidente alimentata da un sistema informativo al totale servizio del regime. Praticamente assenti i tre candidati ammessi, che hanno opportunamente svolto un ruolo per la messa in scena di un’elezione “pluralista” inesistente, mentre i possibili candidati credibili erano stati fatti fuori con espedienti procedurali e repressivi. Il voto si è svolto nel contesto del “macello Gaza” da parte dell’esercito israeliano e delle pressioni sui confini egiziani, che al-Sisi si è rifiutato di aprire. In questo quadro di violenza e insicurezza, la sua mano pesante ha giocato da elemento di stabilità e sicurezza, premiato da una relativamente elevata partecipazione, malgrado la situazione di pesantissima crisi economica.
Tutti gli indicatori economici sono al rosso, a cominciare dal debito pubblico triplicato negli ultimi dieci anni, rappresentando ora il 90% del Pil, sotto il peso dei mega-progetti voluti da al-Sisi, come la nuova capitale amministrativa a est del Cairo, e il sostegno alla sterlina egiziana. L’Egitto è così uno dei cinque Paesi al mondo più esposti al rischio di default dei pagamenti. Da marzo, il Cairo sta negoziando col Fondo monetario internazionale una seconda rata da settecento milioni di dollari di un prestito da tre miliardi di dollari concesso lo scorso anno; ma le misure impopolari richieste dal Fondo hanno spinto il regime ad aspettare la chiusura della campagna elettorale per riprendere le trattative. La sterlina egiziana è stata svalutata tre volte negli ultimi dodici mesi, e l’inflazione sfiora ormai il 40%, mentre è al 70% per i prodotti alimentari. L’impatto sociale della crisi è tremendo: il 60% della popolazione vive al di sotto, o al limite, della soglia della povertà assoluta. Stiamo parlando del più popoloso Paese arabo, con più di cento milioni di abitanti.
Le guerre in corso non hanno fatto che peggiorare la situazione. L’Egitto è il più importante importatore mondiale di grano, e dunque subisce in modo particolare il conflitto tra la Russia e l’Ucraina, che sono anche i suoi due principali fornitori del cereale. La guerra a Gaza ha provocato il rallentamento dei flussi di gas tra Israele ed Egitto, e soprattutto la messa in crisi del turismo egiziano, che rappresenta una cospicua fonte di introiti e di valuta per l’economia del Paese: per il momento, l’impatto è stimato a un meno 10% e interessa la sola zona del Sinai e del Mar Rosso, ma si tratta di un bilancio provvisorio.
La guerra sta però anche dando al regime un’opportunità per rafforzare la propria credibilità internazionale. Il Cairo è al centro delle trattative tra Israele e Hamas per le tregue umanitarie e il rilascio degli ostaggi, ed è diventato un partner essenziale dell’Unione europea, come dimostra l’annuncio, a metà dicembre, da parte della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, del negoziato in corso per un accordo sulla “gestione” dei migranti. Intanto, la Francia si è già mossa per fornire al regime tre navi per la guardia costiera egiziana, assicurando la formazione del personale. Nessun accenno naturalmente alla politica anti-migratoria già praticata dall’Egitto nei confronti dei richiedenti asilo (e dei migranti in generale), come più volte denunciato dalla Ong Refugees Platform in Egypt, che in queste settimane si sta battendo anche per la concessione di permessi di entrata dei palestinesi provenienti da Gaza. L’Italia segue in buon ordine, allineata nel più assoluto silenzio: troppi gli interessi in gioco, dal giacimento di gas offshore di Zohr, il maggiore del Mediterraneo, dato in concessione all’Eni, alla vendita di armi al più potente esercito africano. Dell’assassinio di Giulio Regeni neanche a parlarne, ormai; e la vicenda di Patrick Zaki è diventata un motivo per ringraziare il presidente!
È certo che al-Sisi sfrutterà questi riconoscimenti internazionali per consolidare, in nome della sicurezza e della stabilità, il controllo sul Paese. Del resto la sua rielezione simbolizza, una volta di più, non solo l’interramento definitivo della rivolta popolare di piazza Tahrir del 2011, ma la “legittimità” della repressione e del controllo totalitario sulla società civile.