
Primarie sì, primarie no. Nel Partito democratico ricomincia il tormentone in occasione delle prossime elezioni amministrative che si terranno, tra il 15 aprile e il 15 giugno, a Firenze, in Sardegna, in Abruzzo e in altre importanti località come Bari, Cagliari e Livorno. Purtroppo dovremo assistere, e anzi stiamo già assistendo, a un déjà vu perché la segretaria Elly Schlein non le attuerà per scegliere i candidati, con le conseguenti e prevedibili polemiche.
Ripercorriamo brevemente la storia di una modalità “democratica” completamente estranea alla tradizione politica italiana ed europea. Quando nel 2007 Walter Veltroni tenne a battesimo il Pd, fu spinto, tanto era affascinato dal sistema politico americano, a fare delle primarie – già sperimentate nel 2005, quando servirono a nominare il rappresentante della coalizione di centrosinistra, e a vincerle fu Romano Prodi contro Fausto Bertinotti e Clemente Mastella – uno strumento per dare la possibilità, agli iscritti e ai non iscritti, di scegliere il segretario nazionale e anche i dirigenti locali o i candidati alla corsa a sindaco e alla presidenza di Regione. Fino a quel momento, quando c’erano ancora i Democratici di sinistra, i dirigenti erano designati dai congressi o dalla direzione del partito. Un’eredità novecentesca da cancellare. Ma “mutuate dall’esperienza degli Stati Uniti, dove sono prassi istituzionale dalla metà dell’Ottocento, le primarie nel nostro Paese hanno fatto fatica ad attecchire – dice Pietro Adami, giurista e giornalista presso “Sky tg24” – tanto che allo stato attuale sono uno strumento che è stato utilizzato quasi esclusivamente proprio dalla formazione di centrosinistra”.
Eppure la storia sembrerebbe dire il contrario, visto che sono servite, sia pure non senza tormenti, a eleggere sette segretari nel corso di sedici anni: appunto il fondatore Veltroni nel 2007, due volte Pierluigi Bersani, nel 2009 e nel 2012, due Matteo Renzi, nel 2013 e nel 2017, una volta Nicola Zingaretti nel 2019, e infine proprio Elly Schlein, lo scorso febbraio, dopo essere stata sconfitta dal presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, alle primarie riservate agli iscritti, e affermatasi poi clamorosamente nel ballottaggio (previsto solo dal 2019) aperto a tutti. Vale la pena ricordare che, se nel caso della ex europarlamentare l’afflusso di donne e uomini non iscritti al partito, si è configurato, secondo alcuni osservatori, come un valore aggiunto, non si può dire altrettanto per il passato: per esempio, nelle primarie per la corsa alla candidatura a sindaco di Napoli e Milano, vista allora la presenza ai gazebo di persone neanche lontanamente passabili per iscritti o simpatizzanti, con le conseguenti gravissime accuse di brogli. Ma a parte questa sgradevole parentesi, il nodo “iscritti o non iscritti?” era già nella natura di una forza politica aperta a tutti, anche a chi aveva la tessera di un altro partito, con le conseguenze immaginabili. “Molti sembrano scoprire solo ora con un certo scandalo – ha detto il politologo Antonio Floridia, dopo il risultato delle ultime primarie – quanto era perfettamente inscritto nella logica del modello originario del Pd: ossia che il voto ‘aperto’ a tutti gli elettori potesse contraddire quello degli iscritti”.
Dunque la telenovela continua. Come dicevamo, Schlein vorrebbe farne a meno – e il condizionale in questo caso possiamo anche toglierlo, perché i giochi sono sostanzialmente fatti –, malgrado sia stato proprio quello strumento a rendere possibile la sua incoronazione. Una scelta ad altissimo rischio per una leader che più di uno nel partito aspetta al varco per poterla fare fuori. E il rischio che possa essere questa l’occasione per aprire il fuoco amico c’è tutto. Cominciando da chi sostiene che l’articolo 18 del regolamento del Pd, che prevedeva la nomina attraverso le primarie dei candidati a sindaci e presidenti di Provincia e di Regione, sarebbe stato cancellato.
In realtà, tutto è stato fatto senza violare alcuna regola. Infatti, dice Schlein, “le primarie restano uno strumento valido ma dipende dal contesto locale. In alcuni territori – ha precisato la segretaria – si fanno le primarie, in altre la coalizione trova un accordo su programma e candidato”. Così è stato nel caso dell’attuale assessora al sociale della giunta fiorentina Sara Funaro, candidata a sindaca di Firenze, scelta secondo tutte le regole, ovvero attraverso un’assemblea riunita alla Casa del Popolo di San Bartolo a Cintola, dove l’81% dei presenti ha votato a favore di quella candidatura. Dunque nessun vulnus alla democrazia interna in un contesto in cui, però, si mescolano vecchie e nuove prassi, che insieme danno luogo solo a cortocircuiti. Un caos del quale ha infatti tentato di approfittare Matteo Renzi, desideroso di misurare la propria consistenza elettorale a Firenze attraverso le primarie nel centrosinistra, lanciando Stefania Saccardi, vicepresidente della Regione Toscana, ma trovando in Schlein un muro. Anche in Sardegna niente primarie, con il Pd che sosterrà la pentastellata Alessandra Todde alla presidenza della Regione; mentre l’altro candidato di centrosinistra, Renato Soru, già presidente della Regione, sarà appoggiato dai Progressisti di Massimo Zedda, da +Europa e da diversi movimenti locali. Una divisione pericolosa.
Dallo scenario descritto derivano diverse considerazioni: chi introdusse le primarie in Italia aveva in mente una sorta di premierato ante litteram, simile in qualche modo a quello proposto oggi dai meloniani. E aveva, come appunto nel caso di Veltroni, un interesse verso un sistema elettorale maggioritario, che in Italia però ha mostrato di funzionare solo nelle elezioni locali. Tutto questo appare oggi una modalità di selezione dei candidati legata comunque a un’altra epoca. Ed è un miracolo che il Pd sia riuscito a sopravvivere in questo caos, a essere ancora una forza consistente. L’attuale inquilina del Nazareno, che ha intanto l’obbligo di vincere la prossima tornata elettorale, tra le sfide da affrontare ha anche quella di dare linearità alla vita democratica del partito. Insomma, sulle primarie andrebbe presa una decisione che stabilisca una volta per tutte come eleggere i candidati. Altrimenti, spunterà sempre il Renzi di turno pronto ad approfittare della cronica debolezza di un partito che non riesce, dopo sedici anni di vita, a spiccare il volo.