Ne abbiamo visti di spettatori che si presentano al cinema con strani vestiti: vuoi nei panni degli eroi di Star Wars, vuoi in quelli dei film di animazione giapponesi o ispirati ai tanti fumetti della Marvel. La pratica, ormai codificata, è definita cosplay: fusione di “costume play” (interpretazione di una maschera) e ha i suoi riti e luoghi di ritrovo. Spesso si tratta di figuranti a pagamento, che si materializzano alle campagne di lancio di un prodotto. Altre volte sono invece fan autentici, come quelli di The Rocky Horror Picture Show (1975), che per anni hanno ballato e recitato davanti agli schermi su cui il film veniva proiettato. Saranno dei fan anche quelli comparsi a Spilimbergo (Pordenone), indossando uniformi naziste e fasciste per una recente proiezione di Comandante?
Il regista del film, Edoardo De Angelis, e il co-sceneggiatore, Sandro Veronesi, hanno condannato l’episodio: “Una carnevalata grottesca”, ha detto Veronesi al quotidiano “la Repubblica”, in una intervista a due voci dove, dal canto suo, De Angelis si chiede “com’è possibile che un film così dichiaratamente antifascista sia strumentalizzato con tanta spregiudicatezza”. Chi ha visto Comandante si domanda piuttosto perché tanto stupore da parte di De Angelis, dato che il risultato è un film confuso, omissivo e costellato di stereotipi.
Comandante si ispira a fatti avvenuti nel 1940, nell’oceano Atlantico, a largo dell’isola di Madera, dove il sommergibile della Regia Marina Cappellini cannoneggia e affonda il piroscafo belga Kabalo. Per volontà del comandante, Salvatore Todaro, i ventisei naufraghi del Kabalo vengono rimorchiati sopra una scialuppa. Dopo la rottura del traino, sono accolti a bordo dello stesso Cappellini e portati in salvo fino a un porto delle Azzorre. A questa vicenda De Angelis e Veronesi attingono con l’obiettivo dichiarato di esaltare l’etica del mare per parlare a un’Italia in cui “salvare chi annega” non è più un principio indiscutibile.
Comandante è dunque un’opera che aspirerebbe a incidere sul nostro presente. Ma chi è il Salvatore Todaro ritratto nel film? È un guerriero tutto d’un pezzo e con poche sfumature. Rigido come la sua schiena, imbrigliata nel busto che indossa dopo la frattura di una vertebra in un incidente aereo, anelerebbe alle gioie familiari, ma più alte missioni lo richiamano. Orgoglioso del suo sommergibile (che per lui è di sesso femminile), all’equipaggio consiglia in caso di paura: “Rivolgetevi a lei, toccatela… Chiavatela anche!”. Orgoglioso anche dell’Italia, con le sue tante differenze regionali, ma finalmente unita all’interno di quel ventre metallico. Per i suoi uomini Todaro è un padre, severo ma maschiamente amorevole: cuce con le sue stesse mani le ferite di un valoroso milite; accarezza sul capo un altro eroe morente (ispirato a Danilo Stiepovich, medaglia d’oro del Cappellini). Pierfrancesco Favino ce la mette tutta per dare spessore al comandante, che nonostante i suoi puntelli (recitazione asciutta e un dialetto veneto credibile) rimane una figura oppressa dalla retorica. Il problema è che non basta far gridare a Todaro: “Io non sono un fascista, sono un uomo di mare”, se intrinsecamente fascisti sono i valori espressi da questo personaggio.
Il quadro storico in cui la vicenda si muove (la Seconda guerra mondiale) rimane appena tratteggiato; rimosso il duce, di cui non si vede neppure l’ombra; rimossi anche i nazisti. Nel film la guerra sembra un dato naturale, come l’alternarsi del giorno con la notte. Ma c’è dell’altro: la narrazione delle azioni belliche è marcata da un’esaltazione che stride con gli intenti dichiarati a parole dagli autori. Le contraddizioni interne a Comandante balzano agli occhi in questa scena, da guardare tutta per credere. Interno sommergibile Cappelllini: viene azionato un grammofono e parte l’“Inno dei sommergibilisti”, musica di Mario Ruccione (l’autore di “Faccetta nera”) e testo di Guglielmo Giannini (quello che poi fondò il Fronte dell’Uomo qualunque), che così recita:
Andar pel vasto mar
ridendo in faccia a Monna Morte ed al destino!
Colpir e seppellir
Ogni nemico che s’incontra sul cammino!
È così che vive il marinar
nel profondo cuor del sonante mar!
Del nemico e dell’avversità
se ne infischia perché sa che vincerà!
E mentre questo “me ne frego” in salsa marinara si propaga in mezzo all’equipaggio, la macchina da presa sale sul ponte del Cappellini, dove in cima alla torretta canta un gagliardo sommergibilista, stagliandosi in canottiera contro il cielo minaccioso (un po’ nello stile “eroico proletario” del realismo socialista sovietico, un po’ in quello di uno spot Dolce e Gabbana). Ecco che parte l’attacco degli aerei alleati, a cui gli italiani rispondono con compatto ed ebbro vigore – quasi una trance mitragliatoria, che colpisce anche lo spettatore in faccia – fino all’abbattimento del velivolo nemico.
Se i veri cattivoni del film sono due antifascisti belgi, che nonostante siano stati salvati da Todaro mettono a repentaglio la vita di tutti sabotando i cavi elettrici di bordo, in Comandante gli italiani sono sempre e solo brava gente. Intendiamoci: non si pretende che un singolo film, incentrato su una specifica vicenda, si faccia carico di tutto ciò che la ricerca storica ha messo in luce sulla “bravura” delle nostre truppe(come negli studi di Angelo Del Boca sui crimini di guerra commessi dagli italiani in patria e all’estero); altro paio di maniche è l’edulcorazione della storia, che in questo film raggiunge tratti di stucchevolezza. In Comandante l’identità italiana viene sintetizzata in tre concetti: orgoglio, buon carattere e buon cibo. L’interminabile lista di piatti della nostra cucina, che deborda fino ai titoli di coda, contribuisce a strizzare l’occhio a uno spettatore che si sente così rassicurato della sua bontà, doppia e perenne. Stendiamo un velo poi sul mandolino, imbracciato al termine dal film da un napoletano che languidamente intona ’O surdato ’nnammurato. Avendo visto Comandante non nella proiezione che gli è stata riservata all’apertura dell’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, ma fra gli umori del pubblico di una sala vera, possiamo confermare che tutto questo consolatorio arruffianamento riesce a colpire il suo bersaglio.
Tutti gli altri colpi purtroppo vanno a vuoto in Comandante. Peccato, perché le questioni sul tavolo erano molte e tutt’altro che banali. Come il tema della leadership e della responsabilità della altrui vita, in guerra come in pace. Spogliato di retorica e munito d’altro spessore, il personaggio di Todaro avrebbe potuto essere un’Antigone del mare invece che un macho solo al comando. Niente a che vedere, per fare un esempio, con il travaglio del colonnello Dax in Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick, che, pur obbedendo agli ordini, cerca di evitare l’inutile carneficina dei suoi uomini. Nell’ambito del cinema italiano, Comandante (che con 14 milioni e mezzo di euro ha disposto di un budget che altri sognano) è ben lontano dalla complessità di film come Uomini contro (1970)di Francesco Rosi, tratto da Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, dove dal racconto del primo conflitto mondiale emergono altri conflitti, anche di classe.
Forse De Angelis non ha tutti i torti a criticare “certa sinistra” che ha bisogno di “adeguare le opere e la realtà ai suoi stereotipi”. D’altro canto, quando un film soccombe agli stereotipi e manca di una visione nitida su quello che racconta, non può aspirare a incidere sul presente se non in modo confuso: Spilimbergo docet.