Domenica 17 dicembre, i cileni sono stati chiamati alle urne per esprimersi su una seconda proposta di Costituzione che avrebbe sostituito quella approvata durante la dittatura di Augusto Pinochet (1973-1990), poi rimaneggiata una sessantina di volte. Il testo in votazione conteneva posizioni ancora più conservatrici rispetto alla Carta in vigore, soprattutto perché avrebbe potuto impedire il diritto all’aborto nei tre casi in cui è consentito, e perché imprimeva un forte giro di vite sulla questione delle migrazioni, diventate uno dei temi critici della politica cilena. Ieri, nonostante la partecipazione sia stata dell’84% (ma si consideri che nel Paese il voto è obbligatorio), i 15,4 milioni di aventi diritto si sono recati ai seggi in un’atmosfera di stanchezza, dato che negli ultimi cinque anni il Cile ha vissuto ben cinque appuntamenti elettorali. Tanto più che la consultazione è caduta in pieno periodo natalizio, con una parte della popolazione in procinto di partire per le vacanze. L’obbligatorietà del voto era stata reintrodotta un paio di anni fa, dopo alcuni risultati elettorali disertati dal corpo elettorale. Sta di fatto che la percentuale di ieri si avvicina a quella registrata nel settembre 2022, in occasione dell’uscita dal primo processo costituente, e a quella dell’elezione del Consiglio costituzionale dello scorso maggio.
I sondaggi, quando ancora potevano essere resi pubblici, fino a due settimane fa, davano in vantaggio l’opzione della bocciatura. Tuttavia, permanendo una consistente percentuale di incerti, il risultato non era poi così sicuro. Molti, infatti, pur ritenendo che il nuovo testo sarebbe stato respinto, pensavano che la differenza tra contrari e favorevoli non sarebbe stata schiacciante. Così invece non è stato: ieri i cileni, con oltre il 55% dei voti, hanno deciso che era meglio tenersi la vecchia Costituzione anziché approvare un nuovo testo controverso, voluto dall’estrema destra e dalla destra. Il “no” ha vinto in tredici delle sedici regioni del Paese; mentre hanno votato a favore Maule, Ñuble e la Araucanía, il Sud cileno, colpito da tempo dalla violenza, che in genere favorisce la destra.
Ricordiamo brevemente la storia recente del Cile per consentire al lettore di comprendere come la questione del cambio costituzionale sia stato al centro del dibattito negli ultimi anni, portando a una radicalizzazione nel Paese. Bisogna risalire al 18 ottobre 2019. Mentre l’allora presidente Sebastián Piñera, in un’intervista a un importante quotidiano americano, vantava la stabilità del suo Paese, un banale aumento del prezzo del biglietto della metropolitana (pari a trenta pesos, qualcosa meno di tre centesimi di euro) innescò la rivolta degli studenti, che presero a saltare i tornelli delle stazioni della metropolitana di Santiago accendendo la miccia della più grande protesta sociale da decenni. In breve, la crisi precipitò, con episodi di violenza – come l’incendio di varie stazioni della metropolitana e degli autobus, il saccheggio di supermercati e gli attacchi a centinaia di strutture pubbliche. Ma molte fonti, già all’epoca, denunciarono che questi atti erano dovuti anche ad agenti provocatori vicini alle cosiddette forze dell’ordine.
La prima reazione del governo di destra fu da manuale: schieramento dei militari nelle strade, promulgazione dello stato di emergenza e introduzione del coprifuoco. Nonostante la scelta della repressione, la trasformazione di una banale protesta in quello che passerà alla storia come estallido social costrinse il governo di Piñera a ritirare l’aumento della tariffa della metropolitana. Ma era già troppo tardi, perché la rivolta aveva ormai preso di mira le profonde disuguaglianze del Paese, espandendosi a macchia d’olio, investendo oltre Santiago città importanti come Valparaíso e Concepción. “Non sono trenta pesos, sono trent’anni” – era lo slogan dei manifestanti, che ormai protestavano contro il modello politico e economico neoliberista sancito dalla Costituzione del 1980 fatta approvare da Pinochet. Per più di un mese, le piazze furono oggetto di manifestazioni represse brutalmente dalle forze dell’ordine. Il bilancio si chiuse con diciannove morti e oltre quattrocento persone con danni agli occhi per l’impiego, da parte delle forze di polizia, dei cosiddetti perdigones, pallini usati come proiettili antisommossa.
Visto che la rivolta non dava segno di placarsi, alcune forze presenti in parlamento pensarono di dare una risposta politica ai manifestanti che invocavano il superamento della Costituzione di Pinochet, firmando un accordo con il quale veniva convocato un referendum, il 25 ottobre 2020, per redigere una nuova Carta fondamentale. Esso si tenne col 78,3%, registrando la più alta partecipazione nella storia del Cile, tenendo conto che allora il voto non era obbligatorio. Ciò per dare l’idea di quante speranze avesse acceso la possibilità di un cambiamento profondo, che sembrava a portata di mano. Ne usciva una Convenzione costituzionale, eletta sulla base della parità di genere (78 uomini e 77 donne), con 17 seggi riservati ai popoli indigeni, dominata dai movimenti popolari di sinistra, e con i partiti tradizionali ridimensionati e penalizzati. Tuttavia, il 4 settembre 2022, il testo prodotto dalla Convenzione veniva sonoramente bocciato dal 62% dell’elettorato, spegnendo definitivamente le speranze di trasformare il Paese, da laboratorio dei Chicago boys di Milton Friedman, a esempio avanzato a livello mondiale.
In quel momento era già presidente Gabriel Boric (vedi qui), ex militante studentesco che, sulla spinta dell’estallido social, aveva conquistato il Palacio de la Moneda. Egli, che nel momento della rivolta era un deputato al parlamento, era stato uno dei politici che più si erano adoperati al fine di avviare un nuovo processo costituente. Una volta presidente, avendo ricevuto un duro colpo politico dalla bocciatura al referendum, ha voluto dare continuità al processo, promuovendo un accordo che ha portato a un Comitato di espertidi ventiquattro persone, nominate dal Congresso nazionale, il cui compito era quello di elaborare un progetto preliminare, che sarebbe stato poi approvato da un Consiglio costituzionale, composto da cinquanta membri da eleggersi con voto popolare. Il Consiglio che ne è uscito si è rivelato espressione di una maggioranza di estrema destra e di destra.
Il testo costituzionale, fortemente sbilanciato a destra – così come sbilanciato a sinistra era probabilmente quello uscito dalla Convenzione –, è appunto quello bocciato domenica 17 dicembre. Constava di 17 capitoli e 216 articoli: comprendeva temi come la consacrazione del “diritto alla vita di chi non è ancora nato”, l’espulsione immediata dei migranti irregolari, e l’esenzione fiscale della prima casa, a beneficio delle persone a più alto reddito. Inoltre, avrebbe comportato un rafforzamento degli amministratori dei fondi privati di pensione, di cui al tempo della protesta sociale era stata chiesta l’abolizione a favore di un sistema pensionistico di tipo europeo. Per quanto riguarda l’aborto, la proposta, a detta dei critici, poteva entrare in contraddizione con la legge che permette l’interruzione della gravidanza quando la vita della madre è in pericolo, a causa di danni al feto e in caso di stupro.
La bozza conteneva, inoltre, un emendamento che avrebbe fatto sì che le persone condannate a una pena detentiva potessero chiedere che fosse sostituita con quella della detenzione domiciliare, a condizione che fosse accertata l’esistenza di una malattia terminale e il condannato non rappresentasse un pericolo attuale per la società. Secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani, questo emendamento sarebbe andato a favore dei detenuti che stanno scontando pene per crimini contro l’umanità. Si deve tener conto, infatti, che 153 dei 265 prigionieri di età superiore ai 75 anni, presenti oggi nel Paese, sono stati condannati per violazioni dei diritti umani. Nel progetto costituzionale c’era anche un attacco oggettivo alla libertà di sciopero, dal momento che stabiliva che “i funzionari dello Stato e dei comuni non possono scioperare”. Il divieto era anche esteso ai dipendenti di aziende che offrono servizi di pubblica utilità o la cui paralisi causa gravi danni alla salute, all’approvvigionamento della popolazione, o all’economia o alla sicurezza del Paese. Mentre, in ambito sanitario, il testo sanciva che “ogni persona avrà il diritto di scegliere il sistema sanitario di cui desidera avvalersi, sia esso statale o privato”. I partiti che avevano deciso di votare contro il nuovo testo – tutti quelli che in qualche misura gravitano sul governo – avevano denunciato che ciò avrebbe consolidato il modello di sanità privata a livello costituzionale. In ambito pensionistico, secondo i critici, il testo avrebbe impedito di generare meccanismi “solidali” o di distribuzione del modello attualmente in vigore.
La sconfitta referendaria colpisce in particolar modo José Antonio Kast, segretario del Partito repubblicano, classificatosi al primo turno delle presidenziali del novembre 2021 al primo posto con il 27,91% dei voti, e battuto poi da Boric al ballottaggio. Il risultato si ripercuoterà soprattutto su questa formazione politica, per quanto conseguenze siano prevedibili anche in Chile vamos, la destra che è stata di Sebastián Piñera, e ora conta nelle sue file la sindaca di Providencia, Evelyn Matthei, l’esponente politica che, a due anni dalle presidenziali, gode della maggiore credibilità. Il risultato di ieri è insomma destinato a generare un rimescolamento delle carte all’interno della destra cilena, finora egemonizzata da José Antonio Kast, con Evelyn Matthei che si candida a riprendere la leadership dell’intero schieramento conservatore. Dopo avere appreso il risultato, Kast non si è presentato assieme a Chile vamos, ma solo con i rappresentanti della sua formazione, che a livello parlamentare si riducono a un senatore e dodici deputati, dopo che un settore del partito – una nuova versione libertaria, che si situa ancora più a destra – l’ha lasciato nel mezzo del processo costituente. Di certo una spia della tensione che serpeggia nell’opposizione al governo.
Gabriel Boric, invece, interrompe finalmente una lunga sequela di insuccessi, anche se in questa occasione ha evitato di mescolarsi con i partiti che si erano battuti per la bocciatura del testo. Vede oggi respinta la costituzione voluta dalla destra, dopo essere stato travolto dal rifiuto di quella che aveva sostenuto. La conseguenza, confermata ieri sera durante il suo discorso, èche fino alla fine della legislatura il tema costituzionale verrà archiviato. Per lui, quella di ieri, è una mezza vittoria, se non proprio una vittoria di Pirro. Ci consegna un giovane presidente, eletto sulla spinta dello scontro sociale, il cui compito era quello di archiviare definitivamente la Costituzione pinochettista, il cui risultato sarebbe stato un radicale cambiamento della natura dello Stato. Sarà invece un presidente che nei prossimi due anni alla Moneda tenterà di dare risposte alle crisi impellenti. In primo luogo, a quella della sicurezza. E poi, potendo contare su una spinta residuale, metterà al centro la riforma delle pensioni, con il superamento dell’odiato sistema del sistema pensionistico privato.
I dieci partiti filogovernativi, con in più la Democrazia cristiana, anch’essa contraria alla proposta di Costituzione, sono apparsi insieme nella sede del Partito socialista, e l’incontro ha avuto i toni della celebrazione. Avevano tutto il diritto di festeggiare, se consideriamo che quanto è accaduto non è altro che l’ultimo anello di una lunga catena di fatti che, passo dopo passo, ha estromesso quella nuova “sinistra meticcia” – secondo la felice espressione di Aldo Garzia (vedi qui) – che l’estallido social del 2019 aveva catapultato al centro della scena politica cilena.