Si profila all’orizzonte una personalità autoritaria insieme simile e diversa da quella che i più anziani tra noi hanno potuto vedere all’opera ancora nella seconda metà del Novecento? Non ci riferiamo tanto ai Putin e ai Trump – per i quali tale definizione appare perfino poco calzante, trattandosi di uomini di potere sostanzialmente criminali –, quanto piuttosto a coloro disposti a seguirli. Una personalità autoritaria (oggi si potrebbe anche dire un sé autoritario, utilizzando una terminologia tardo-psicoanalitica), come l’avevano messa a fuoco Adorno e altri studiosi in una celebre ricerca di psicologia sociale, è quella di qualcuno caratterizzato da un patologico etnocentrismo, da una tendenza spiccata alla xenofobia e al razzismo. Essa ha costituito la base del consenso di massa di cui i fascismi hanno goduto; e alcuni suoi tratti si ritrovano nello stalinismo, per esempio in un antisemitismo neppure troppo velato.
Ma nel mondo contemporaneo – si potrebbe obiettare –, a differenza di quanto si osservava nel Novecento, la nozione biologica di “razza”, messa fuori corso dalla scienza delle popolazioni, non ha più attualità, sopravvivendo forse qua e là nel senso comune come un modo di dire, a cui viene preferita comunque quella di “etnia” con la sua connotazione antropologico-culturale. Ciò è senz’altro vero. E però, pur senza insistere più di tanto sul fatto che il cosiddetto “differenzialismo etnico” ha in sé il germe di un nuovo razzismo – con un riferimento implicito a quella che sarebbe un correlato della “differenza”, e cioè la segregazione, l’apartheid –, basta considerare come l’assillo identitario appaia nel nostro tempo centrale a vari livelli, per iniziare a sospettare che una qualche personalità autoritaria stia ritornando fuori, anche se con modalità diverse dal passato.
L’accento va quindi spostato dai termini “autoritarismo”, “autoritario” e simili (e chi, pur giovanissimo, ebbe modo di vivere il Sessantotto ricorda la circolazione che essi avevano come concetti critici, che intendevano portare allo scoperto la dose di fascismo conservata sotto una sottile scorza democratica nella vita sociale dell’epoca) a quello di identità. Il che è stato in effetti proposto con la ricerca, sostenuta dalla Fondazione per la critica sociale, pubblicata nel 2021 con il titolo Sulla sindrome identitaria (Rosenberg & Sellier).
Lo sfondo teorico del discorso è il seguente: 1) da tempo, ormai, si è passati dalla società di massa tipicamente novecentesca, con le sue classi sociali ben definite, a quello che, convenzionalmente, e già a partire dalla seconda metà del Novecento, si può descrivere come un individualismo di massa, che vede non tanto un declino o uno svuotamento della soggettività, quanto piuttosto una sua trasformazione in cui, agli aspetti massificanti di standardizzazione dell’esperienza, si affianca un’esaltazione di segno contrario della “differenza” – anche qui – di ognuno da ciascun altro, ma nella forma di un’accentuata atomizzazione dell’individuo chiuso in una prigione le cui sbarre si chiamano, sul piano sociologico, “concorrenza”, “competizione”, “meritocrazia”, e su quello psicologico “narcisismo”; 2) questo individuo liberale o neoliberale, a volere essere precisi, è pronto a scivolare, come il suo antesignano protonovecentesco lo era nei nazionalismi e nei fascismi, nei nazional-populismi contemporanei che ne sono in certa misura gli eredi; 3) si tratta di forme stravolte di comunitarismo che prendono corpo all’interno di un mutamento della comunicazione sociale, diffusa in modo sempre più gigantesco e caotico, come mostrano Internet e le nuove tecnologie, così da rendere più forte il bisogno di un’autodefinizione identitaria. Questa del resto può essere relativamente innocua, quando si tratti di sopravvivere in un ambiente in cui il sé del ricevente, sottoposto a un diluvio comunicativo fino a condurlo a un’esperienza di frammentazione del sé (per usare in maniera un po’ metaforica un termine che ha connotati psichiatrici), passi più o meno stabilmente dalla parte dell’emittente, diventando magari influencer o hater, o qualsiasi altra cosa; oppure può assumere l’aspetto di una vera e propria sindrome identitaria quando il tenersi a galla si traduce in una postura prepolitica o politica. Può così essere pienamente riattivata quella logica dell’inversione reattiva (che nella sua forma pura è data dalla paranoia: “non sono io che lo odio, è lui che odia me e devo difendermene”) che si ritrova in tutti i discorsi complottisti. Da ultimo, nella cosiddetta teoria della sostituzione etnica, il cui contenuto non è più l’antisemitismo – o almeno non soltanto questo –, ma oggi soprattutto l’islamofobia.
Ciò avviene tuttavia all’interno di una forma prevalentemente elementare della comunicazione, il cui grado zero, per così dire, è dato da un mi piace/non mi piace: non attraverso il dispiegamento di concetti o ideologie esplicite, come nel razzismo d’antan, quanto piuttosto in una modalità idiosincratica, che permette una facile distinzione tra il gruppo interno e il gruppo esterno, tra gli usi e i costumi che identitariamente si approvano (“mi piace”) e altri che invece identitariamente non si approvano (“non mi piace”). Qualcosa del genere, ed è una questione su cui riflettere, può riguardare anche aspetti dell’identità che un tempo erano soltanto la legittima rivendicazione di radici culturali strappate (come nel caso, poniamo, dei nativi americani), e oggi, se non consapevolmente orientati, danno luogo talvolta a un’intolleranza uguale e contraria a quella di cui si è stati vittime. È un fenomeno cui assistiamo in particolare con il ritorno dei fondamentalismi religiosi.
Nell’insieme, appare del tutto perspicua la definizione, di recente data da Mario Pezzella, del Ventunesimo come “secolo ombra”. Nel senso di una prosecuzione del Novecento – “secolo lungo”, quindi, anziché “breve” – in una versione se vogliamo depotenziata rispetto ai genocidi e alle catastrofi del passato, e perfino buffonesca: come di qualcuno che si sporga pericolosamente sull’abisso, ma solo per distogliersene mostrando agli astanti il ghigno di chi ha saputo fare la sua bravata.