Nella storia della ex Ilva, la più grande acciaieria d’Europa, precipitano, come in una rappresentazione tragica, tutti i problemi del lavoro e dell’Italia: la difesa dell’occupazione contro la difesa della salute, la morte per intossicazione progressiva dei lavoratori e la morte progressiva dei cittadini per inquinamento. Una storia che dimostra, al tempo stesso, l’assenza totale di una vera classe dirigente politica e industriale. I governi che si sono alternati a palazzo Chigi, negli ultimi anni, non hanno avuto il coraggio della scelta, e il mitico processo di riconversione (attuato invece in altri importanti stabilimenti siderurgici europei) è rimasto appunto una leggenda. La vicenda dello stabilimento di Taranto torna oggi alle cronache per due notizie in ambiti diversi, quello della politica e quello del cinema.
Il film
Della ex Ilva, diventata Acciaierie d’Italia (nome che però non ha mai sostituito nell’immaginario collettivo la parola Ilva), si torna a parlare per l’uscita del film di Michele Riondino, al suo esordio come regista, Palazzina Laf di cui “terzogiornale” ha scritto recentemente: vedi qui. Il film, come in un salto temporale – scrive Rossella Lamina – ci riporta all’Ilva del 1997, due anni dopo il rilevamento da parte della famiglia Riva dell’impianto di Taranto grazie al processo di privatizzazione della Italsider, avviato da Lamberto Dini e portato a termine da Romano Prodi. Palazzina Laf, che si ispira a fatti realmente accaduti in uno dei primi processi italiani per mobbing – che si concluse nel 2006 con la condanna di undici imputati, fra cui il presidente del Consiglio di amministrazione, Emilio Riva – ci mette di fronte alla scena teatrale più tragica: il nero di morte dell’inquinamento e dell’assenza di futuro, condito con uno degli elementi centrali degli ultimi anni, la divisione tra lavoratori e la contraddizione interna allo stesso individuo: quando sei lavoratore difendi il posto di lavoro, quando sei cittadino che respiri i miasmi della fabbrica e ti ammali, sei contro la fabbrica.
Palazzo Chigi
L’altra notizia sulla ex Ilva è politica. Il governo Meloni ha convocato i sindacati per la prossima settimana, il 20 dicembre. L’aria è quella dell’ultimatum. I sindacati dei metalmeccanici sono stati chiari: “Il 20 dicembre o c’è una risposta che dà garanzie rispetto alla salita del socio pubblico dentro Acciaierie d’Italia, e quindi prende in mano il governo la gestione dell’azienda con un elemento di garanzia per i lavoratori e per le produzioni, o noi non andremo via”. Lo ha detto il segretario generale della Fiom-Cgil, Michele De Palma, durante una recente conferenza stampa. Il 20 dicembre i sindacati chiederanno “risposte definitive”. “Se non ci saranno – ha spiegato De Palma – rimarremo di fronte a palazzo Chigi. È finito il tempo del confronto tecnico, ci vuole una decisione politica. L’unica soluzione possibile è la gestione da parte del pubblico”.
Penelope
Ma ci saranno queste risposte? Il governo si assumerà la responsabilità storica di far rientrare lo Stato nella produzione d’acciaio per riconvertire e rilanciare la produzione? Difficile, quasi impossibile, essere ottimisti,perché quella di Taranto è una “tela di Penelope”, come ha scritto due anni fa su “terzogiornale” Guido Ruotolo (vedi qui). “La vicenda spinosa a cui ci riferiamo è quella dell’ex Ilva oggi Acciaierie d’Italia – scriveva Ruotolo – dopo la condanna penale in primo grado per inquinamento doloso e una sfilza di reati ambientali, con la confisca dell’area a caldo, ormai risalente a più di un mese fa, e il ribaltamento del Consiglio di Stato sulla chiusura della stessa area a caldo voluta dal sindaco e confermata dal Tar, siamo adesso tornati all’inizio di quella che è stata, fin dal principio, una tela di Penelope. C’è innanzitutto questa sgradevole sensazione che il governo non voglia progettare una riconversione ambientale della più grande acciaieria d’Europa, risarcendo la città di Taranto. E il ministro leghista dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, è come se rispondesse più alla richiesta delle lobby dell’acciaio, e dei padroni lombardi dei tondini, che a una politica industriale ecologica”.
Giancarlo Giorgetti…
Corsi e ricorsi. Il ministro di allora era Giancarlo Giorgetti (governo Draghi). Il ministro di oggi è Giancarlo Giorgetti (governo Meloni). Cambiano i governi, mentre alcuni nomi restano. Ma quella che è in continuità è l’assenza della politica (intesa come l’arte dello scegliere per il bene collettivo). Sull’ex Ilva si sono infatti arenati finora i progetti migliori, e anche a sinistra non si è andati oltre un balbettio imbarazzato.
… e Roberto Cingolani
Ancora Ruotolo ci ha ricordato le poche (ma confuse) idee del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che si era spacciato per uomo della sinistra: “Alla fine uno deve anche capire quale sia il rapporto tra il tempo da aspettare per fare la transizione e la salvaguardia della salute. Io questo ora non lo so”. Ne sanno qualcosa gli attuali ministri? Giorgia Meloni ha una qualche idea in proposito? Lo capiremo (forse) mercoledì prossimo, 20 dicembre, quando, alle ore 11, il governo incontrerà le organizzazioni sindacali per un esame della situazione. Sono stati convocati all’incontro la Fim Cisl, la Fiom Cgil, la Uilm, l’Ugl e le Usb. L’obiettivo di tutte le delegazioni sindacali è quello di salvaguardare la produzione dell’acciaio in Italia e il destino di circa ventimila lavoratori (oltre diecimila dipendenti diretti e circa altrettanti nell’indotto). L’idea è quella di chiedere al governo di assumere il controllo di maggioranza di Acciaierie d’Italia (al momento al 38%, in mano di Invitalia, e al 62% di ArcelorMittal). L’appello rivolto all’esecutivo – da parte di Fiom, Fim e Uilm – è di presentare, nell’incontro fissato con i sindacati che precederà l’Assemblea degli azionisti fissata per il 22 dicembre dall’azienda, dopo tre incontri andati a vuoto, una soluzione definitiva sulla vertenza; altrimenti, appunto, non si sposteranno da palazzo Chigi.
Consunzione
Ma la situazione è complicata da tutti i punti di vista – a partire, ovviamente, da quello economico. Secondo quanto indicato dall’amministratore delegato, Lucia Morselli, la crisi finanziaria richiede una ricapitalizzazione di emergenza di almeno 320 milioni di euro per pagare la fornitura di gas e far fronte alle esigenze più immediate. Nell’ultima riunione, ArcelorMittal – che non intende, a quanto si è appreso, partecipare pro quota alla ricapitalizzazione – ha presentato una memoria nella quale, oltre a evidenziare gli investimenti garantiti durante la gestione dell’ex Ilva, lamenta la presunta inadempienza del partner pubblico rispetto agli impegni sottoscritti attraverso i patti parasociali. Di questo passo, si rischia di andare verso una consunzione, come ha detto il segretario generale, della Fim-Cisl, Roberto Benaglia. Anche la Cisl, come la Cgil, chiede dunque un intervento diretto del governo. “Il primo passo – per Benaglia – è la presa del controllo della società, il secondo è quello di scegliere nuovi manager capaci, il terzo stabilire le risorse finanziarie che servono con l’obiettivo di riaprire linee e altiforni”. Mentre di assenza di trasparenza nella gestione della vicenda dell’ex Ilva parla la Uilm, con il suo segretario, Rocco Palombella.
Il mostro
Su tutto incombe poi la questione ambientale e della salvaguarda della salute per una città che ha già pagato un prezzo altissimo, insieme ai suoi operai, che si sono ammalati e sono morti. In uno dei passaggi contenuti nelle oltre 3.700 pagine di motivazioni della sentenza della Corte di assise di Taranto, depositate alla fine di novembre 2022, si legge che “la gestione dello stabilimento Ilva di Taranto, da parte degli odierni imputati, è stata una gestione disastrosa che ha arrecato gravissimo pericolo per la incolumità/salute pubblica”. Gestione che si sarebbe “concretizzata in condotte commissive, operazioni concrete nel ciclo produttivo, sia in condotte omissive, nella massiva attività di sversamento nell’aria-ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonché rurali e urbane circostanti lo stesso”, hanno precisato i giudici. “In particolare Ipa, benzoapirene, diossine, metalli e altre polveri nocive, determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica”.
Interviene l’Europa
“Non possono essere tollerati fenomeni di inquinamento ambientale che, danneggiando la salute umana, violano i diritti fondamentali degli interessati, come accertato dalla Cedu (Corte europea dei diritti umani) con riferimento all’acciaieria Ilva”. È uno dei passaggi chiave delle conclusioni a cui è pervenuto l’avvocato generale della Corte di giustizia europea, Juliane Kokott, nel procedimento legato all’azione inibitoria collettiva contro l’ex Ilva, presentata da undici cittadini di Taranto, tra cui un bambino affetto da una rara mutazione genetica. Era stato il Tribunale delle imprese di Milano a sospendere, nel settembre 2022, la causa originata dall’azione legale dei ricorrenti, promossa dall’associazione Genitori tarantini (tramite gli avvocati Maurizio Rizzo Striano e Ascanio Amenduni) e a inviare gli atti alla Corte del Lussemburgo, ponendo tre quesiti concernenti l’interpretazione della normativa europea in relazione, soprattutto, ai cosiddetti decreti salva-Ilva.
Parola d’ordine: decarbonizzare
C’è dunque un futuro per lo stabilimento siderurgico di Taranto? Si chiedeva Marina Forti scrivendo per “Altraeconomia” nel novembre scorso. La domanda, formulata in un altro modo, suona così: è possibile “decarbonizzare” la produzione di acciaio e renderla compatibile con la salute della città e dei suoi abitanti? Si tratta di una domanda che divide Taranto dal 2012, quando la magistratura ha posto sotto sequestro l’area “a caldo” dello stabilimento, cioè gli altiforni e le cokerie, mettendo l’Ilva sotto accusa per disastro ambientale. Da allora la città pugliese è polarizzata tra chi chiede la riconversione dello stabilimento, per salvare insieme la salute dei cittadini e l’occupazione, e chi vorrebbe l’ex Ilva definitivamente chiusa e smantellata. “Quella di Taranto oggi – precisa Marina Forti – è l’unica acciaieria a ciclo integrale attiva in Italia: cioè la sola che produce acciaio dalla materia prima, minerale ferroso e carbone, attraverso cokerie e altiforni (il processo “a caldo”). È il procedimento più inquinante, e qui ha provocato una contaminazione profonda: lo testimoniano tra l’altro le istruttorie della magistratura, il sequestro degli impianti e il fallimento della proprietà (il gruppo Riva), fino al processo denominato ‘Ambiente svenduto’ concluso con la condanna in primo grado per ventisei dirigenti aziendali e alcuni amministratori locali (maggio 2021)”.
Parola magica: Vis
Per Legambiente un nuovo altoforno “sarebbe un ritorno al passato”, anche se la stessa organizzazione ambientalista non ha mai chiesto la chiusura dello stabilimento, ma continua a insistere affinché si proceda subito con i forni elettrici, il “preridotto”, le energie rinnovabili, e con tutte le bonifiche e gli interventi sociali necessari. Ci sarebbero anche i soldi, visto che il Just Transition Fund, fondo europeo per la “transizione giusta”, ha stanziato quasi ottocento milioni di euro per Taranto, con un piano approvato nel dicembre 2022, su tre direttrici: riqualificazione dei lavoratori, rivitalizzazione del tessuto economico e risanamento ambientale. Alla storica contrapposizione tra sindacati e ambientalisti, oggi subentra quindi una disperata ricerca di soluzioni comuni. Fiom e Legambiente, per esempio, su un punto sono d’accordo: che in ogni futuro piano industriale sia obbligatoria una preventiva “Valutazione di impatto sanitario” (Vis), per valutare quanto e come si può produrre senza compromettere la salute di chi lavora e chi abita intorno allo stabilimento, invece di contare i danni dopo. Vedremo qualcosa di tutto questo? O saremo, nel frattempo, tutti confinati nella palazzina Laf?