Rispetto alle logoranti e roventi discussioni che hanno accompagnato il tempestoso parto della bozza di legge comunitaria europea sull’intelligenza artificiale, appare davvero spettrale il silenzio che in Italia ha accolto l’epilogo di tale travaglio su un tema così attuale e discriminante, quale appunto quello dei modelli di utilizzo delle nuove potenze di calcolo. Né i partiti né i sindacati si sono sentiti toccati nei loro interessi e nella loro rappresentanza da queste decisioni. Eppure il catalogo dei temi, attraversato dalle mediazioni maturate a Bruxelles, riguarda la carne viva delle organizzazioni politiche e sindacali: lavoro, professioni, servizi, autonomia nazionale, sistema della comunicazione, trasparenza della democrazia. A queste voci bisogna aggiungere, per le forze di opposizione, l’opportunità, una volta tanto, di potere seriamente attaccare il dominio del governo, mettendo in luce le pacchiane contraddizioni dei suoi comportamenti in questa vicenda.
Ma né il giovane gruppo dirigente del Pd, né il vertice dei 5 Stelle, che tanto avevano declamato sul ruolo salvifico della tecnologia, hanno avuto tempo e voglia di intervenire su questi nodi. Escludendo un’estraneità culturale – giustificazione, questa, che valeva per i precedenti gruppi dirigenti del Pd, per esempio, del tutto avulsi dalle trasformazioni che hanno riclassificato la nostra società negli ultimi lustri –, bisogna concludere che i due partiti di opposizione ritengono non agevole o conveniente contrastare il potere di interdizione dei grandi centri monopolistici proprietari delle nuove tecnologie. Stiamo parlando, infatti, degli interessi vitali dei proprietari, da una parte, e degli Stati, dall’altra; mentre rimangono ancora silenti le componenti della società civile. Se non di questo vuoto, di che cosa si dovrebbero occupare i dirigenti di una sinistra che vuole recuperare ruolo e spazio?
Nella discussione che ha visto in campo le tre istituzioni fondamentali della comunità (parlamento, Consiglio dei governi, Commissione europea), si è trattato sia di quei meccanismi, che interferiscono nella formazione del senso comune di un Paese, mediante flussi di contenuti mirati e artatamente manipolati, che raggiungono individualmente ogni cittadino, sia della possibilità di sfruttare le opzioni tecnologiche per prevedere e inquisire autori di reato, con inevitabili delicatissimi confini fra la prevenzione e l’arbitrio. Si tratta dunque di diritti fondamentali e, sperimentando per la prima volta un confronto fra istituzioni pubbliche e proprietà privata, di capacità scientifiche e tecnologiche che travalicano la stessa potenza mediatica.
In questo contesto, abbiamo visto l’Europa sbandare sotto i colpi delle lobby, prevalentemente americane, che hanno tentato di frenare, se non proprio sabotare, le decisioni comunitarie. Ma abbiamo visto anche Paesi – Germania e Francia in particolare – cedere ancora una volta al fragile compromesso interno con gli interessi locali – con l’illusione di poter proteggere imprese nazionali che sono dei nani tecnologici in confronto ai giganti della Silicon Valley – bloccando ogni regolamentazione pubblica.
L’epilogo finale di questo macchinoso braccio di ferro vede, come sempre in regime comunitario, un compromesso il cui valore sarà legato alle forze sociali e alla pressione politica che potrà essere attivata nella gestione delle singole norme. E qui il silenzio spettrale, di cui abbiamo detto in apertura, quello dei sindacati e dei partiti di opposizione, non fa ben sperare: quali procedure e obiettivi si devono oggi porre per aprire una dialettica conflittuale attorno agli algoritmi?
Ci sono, infatti, principi molto roboanti, che sembrano limitare fortemente la discrezionalità dei proprietari (OpenAI, Google, Amazon, Microsoft) nell’estendere le funzioni e le applicazioni dei loro prodotti. In particolare, si parla di una trasparenza dei cosiddetti modelli fondativi – i codici sorgenti – che dovrebbe essere garantita a ogni utente. Ma questi principi sono poi connessi a pratiche e a procedure barocche, che rendono difficilmente esercitabile un’azione di controllo. Inoltre, sono ancora vaghi i tempi di attuazione: quando entrerebbero in vigore questi limiti? Si parla di un arco di circa trenta mesi, che nel campo dell’intelligenza artificiale è un’eternità.
Un’altra ambiguità, che comunque apre una porta politicamente molto significativa, riguarda le condizioni di maggior favore per tutte le imprese che si basano sull’open source per implementare le soluzioni automatiche. Parliamo soprattutto della fase di addestramento e specializzazione dei singoli dispositivi, che si sta dimostrando molto gravosa se gestita in chiave proprietaria esclusiva. Appoggiarsi alla formicolante massa critica della rete fa risparmiare molte risorse, assicurando controlli e monitoraggi efficienti. Inoltre l’open source permette strutturalmente di fruire di quelle caratteristiche di trasparenza e condivisione degli algoritmi, che rendono il sistema tecnologico uno strumento pubblico e non un dominio privato. L’Unione europea, e la sinistra in Europa, dovrebbero giocare con maggior coraggio questa partita, spingendo le comunità che governa, in chiave locale o nazionale, a spingersi a essere partner e utenti di questo mondo open source, dando corpo e fisionomia a un altro modo di intendere l’innovazione tecnologica, più vantaggioso dal punto di vista democratico, ma anche da quello della sostenibilità economica ed ambientale, per i minori carichi di inquinamento che comporta.
Sul tema, invece, dell’uso interno, da parte di organi di polizia, delle tecniche di intelligenza artificiale – cioè di quelle esperienze di giustizia preventiva che non sono più fantascienza ma già cronaca, persino in Italia, o del ricorso al riconoscimento facciale e al censimento biometrico, che inevitabilmente comportano pregiudizi e discriminazioni – il quadro si presenta più problematico. Infatti è proprio sul nutrito capitolo delle eccezioni ai divieti di un ricorso a queste soluzioni di controllo che si è incagliato il negoziato. Molti Paesi, e di conseguenza il Consiglio europeo che esprime direttamente la volontà dei governi nazionali, hanno cercato di strappare deroghe e opportunità per utilizzare strutturalmente questi sistemi polizieschi, oggi applicati largamente in Paesi come la Cina o la Russia, così come nel mondo degli autarchici arabi. Il pretesto è quello della minaccia terroristica, e, in molti casi, si profila un utilizzo in chiave anti-immigrazione o per colpire devianze di ogni tipo. La Francia, un po’ sottovoce, e la Germania esplicitamente, hanno sollevato la questione. Il risultato finale è stato un ridimensionamento complessivo delle eccezioni richieste, benché sia stata concessa la cosiddetta riserva emergenziale che permette, in casi estremi, a singoli Paesi minacciati da un terrorismo acclarato, di ricorrere a queste modalità. Il tutto dovrebbe essere sorvegliato da autorità “terze”, indipendenti, che dovrebbero autorizzarne formalmente l’esercizio provvisorio.
Anche l’Italia si è accodata alla Francia e alla Germania, nella richiesta iniziale di una regolamentazione più prudente sulle forme di commercializzazione dei prodotti, pur non avendo, a differenza dei due Paesi europei, aziende del settore da proteggere, ma solo una certa permeabilità alle pressioni lobbistiche dei gruppi monopolistici americani da dimostrare. Tanto è vero che, su questo aspetto della normativa, nel governo si è aperto anche uno scontro fra il ministro del Made in Italy, Urso, che si è arrogato il potere di appoggiare le prime richieste di rallentamento normativo di Parigi e Berlino, e il sottosegretario all’Innovazione tecnologica, Butti, che invece reclamava una regolazione forte. In questo contrasto, è brillata l’assenza delle opposizioni, che sul fronte politico interno si sono disinteressate alla faccenda. Un comportamento che, per quanto riguarda il Pd, appare piuttosto stravagante, dato che il suo capodelegazione europeo, Brando Benifei, è stato uno dei protagonisti del negoziato in quanto relatore di maggioranza sull’intera questione. Ora, il punto da capire è perché la leadership del Pd continui a ignorare la variabile tecnologica come tema di battaglia politica e di rappresentanza di interessi sociali specifici. La segreteria Schlein non ha mai toccato il nodo dello scontro politico con i centri tecnologici globali, tenendosi sempre alla larga dai commenti e dalle polemiche, anche quando il governo assumeva posizioni scopertamente subalterne ai potentati digitali. Oggi c’è un vertice giovane e moderno tale da rendere incomprensibile questa reticenza. Nelle settimane scorse, è stata anche presentata una proposta di legge sull’intelligenza artificiale, peraltro completamente superata dal testo europeo – ma tutto è poi rimasto a mezz’aria. I promotori di quella legge si sono guardati bene dal confrontarsi con il mondo della ricerca e delle produzioni innovative, e, in questi giorni di polemiche europee, non sono minimamente intervenuti. Siamo nel pieno di una trasformazione che vede interi settori – dalla sanità all’informazione, alla pubblica amministrazione – attraversati da processi di automazione delle mansioni, sulla base di un uso spregiudicato e privatistico di una risorsa pubblica quale i dati, eppure non si registra un’iniziativa politica in cui si colga un elemento di attenzione rispetto a una trasformazione sociale e politica dei meccanismi fondanti della nostra democrazia.
Non possiamo perciò non riproporre il quesito che abbiamo formulato in apertura: perché questo silenzio? Perché non si colgono le inquietudini e le contraddizioni, che pure stanno affiorando, per ricostruire un modello di alleanze e rappresentanze che dia forza a una pressione negoziale intorno a componenti vitali della società? I sindacati possono pensare, nei prossimi mesi, di ignorare i possenti processi di riorganizzazione delle aziende attraverso processi di automazione intelligente? I partiti, soprattutto alla viglia di una cruciale campagna elettorale, possono continuare a non vedere come i meccanismi di interferenza, che i sistemi psico-tecnologici innestano, non siano indifferenti? La presenza di Musk alla kermesse della destra meloniana mostra come ormai la connessione fra proprietà e sovranismo sia una componente del nuovo fronte reazionario. Come si risponde a sinistra?