“Desidero esprimere a nome di tutta la comunità accademica alla famiglia e agli amici di Antonio Della Peruta il profondo dolore e il senso di smarrimento per una perdita così tragica. La perdita di un nostro studente segna una sconfitta e deve essere motivo di riflessione per noi che abbiamo la responsabilità di accompagnare i ragazzi nella crescita personale e professionale, nella costruzione del progetto di vita, dando sicurezze tanto più necessarie in tempi difficili e incerti. Motivo di riflessione anche per le nostre studentesse e i nostri studenti: devono imparare a chiedere aiuto, a concedersi la possibilità di fallire, imparare a mostrare le proprie fragilità: la comunità di cui fanno parte è una comunità che accoglie e sostiene senza giudicare”. Questo il comunicato stampa della Federico II di Napoli a fronte dell’ultimo suicidio. L’università è un mondo fantastico e crudele, un campo di battaglia nel quale le ultime generazioni sono state obbligate a vivere sotto la pressione del tempo, della corsa a tutti i costi: più giovane sei, più possibilità avrai di trovare lavoro. M è una favola che la realtà successiva alla laurea smentisce su tutta la linea.
Purtroppo, la schizofrenia della nostra società si riverbera in tanti contesti. Non è necessario andare molto indietro, quando gli studenti si laureavano serenamente e felicemente, solidi e ben preparati, e trovavano in tempi mediamente brevi un lavoro che continuavano a fare per tutta la vita. Era irrilevante l’età della laurea.
Da un po’ di anni il messaggio è che devi fare presto: se perdi anche solo un semestre sei un fallito, devi fare presto, e pazienza se per preparare un esame importante ti devono bastare quindici giorni. Si laureano così meno preparati di una volta, trovano lavori con orari di dieci-dodici ore al giorno, malissimo remunerati: quindi competizione altissima e necessità di continuare a cercare qualcosa di meglio per evitare la povertà.
Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia, ha scritto nel 2011 il saggio Pensieri lenti e pensieri veloci, con il quale ha spiegato che due tipologie di pensiero convivono, con ruoli diversi, nel nostro cervello più o meno pacificamente. Il pensiero lento è il pensiero ragionato, quello che soppesa, che correla, che attinge a diversi cassetti della nostra esperienza di vita. Per fare questo esercizio, serve una grande quantità di energie, e se utilizzassimo questo sistema in ogni momento della nostra giornata non arriveremmo interi a sera. Così riserviamo questo pensiero alle cose complesse e utilizziamo il sistema veloce, per tutto il resto. Il sistema veloce è istintivo, rapido, salvavita, e infatti viene da molto lontano. È quello che ci ha permesso di sopravvivere in epoche del passato molto pericolose, basato su istinti e automatismi. Per la nostra evoluzione sono serviti entrambi.
La mitizzazione di tutte le forme di velocità è in realtà l’apologia di tutte le scorciatoie per ottenere prima ciò che si desidera. E prima lo ottieni, prima si libera il posto per un altro desiderio da soddisfare subito. Serve velocità per essere competitivi in un mondo accelerato. E serve la flessibilità. Ma serve anche la capacità di scegliere quando vale la pena rallentare.
Prendendo in prestito le parole di Lodo Guenzi, del gruppo musicale dello Stato Sociale, cosa mai puoi aver fallito a 19 anni? E soprattutto, cosa o chi spinge un giovane ventenne a pensare di avere fallito? È qui che bisogna venire a capo del dramma che si consuma nella società e in tutti quei sistemi che la compongono, scuola e università per esempio. È qui che bisogna iniziare a instillare negli studenti un’idea più sana di “fallimento”, qualcosa che non deve necessariamente qualificarli come perdenti.
La narrazione contemporanea fa passare come normali performance fuori dall’ordinario, come i laureati a 20 anni, o quelli che sacrificano sonno, amici e tempo libero per un diploma con il massimo dei voti, una laurea conquistata in poco tempo, ecc. Si vedono piangere gli studenti perché hanno preso 8 anziché 9. Se guardiamo agli adolescenti (e guardiamoli per favore), dovremmo essere capaci di dir loro non importa il 9 e nemmeno l’8. (Del resto, sui voti, vedi qui). Non è una gara la vita. Non si tratta di prevalere. Vivi la tua vita come vuoi viverla: questo dovremmo prima o dopo riuscire a dir loro. Resta pure ai margini, costeggia i bordi, se questo ti fa sentire libero o libera. Se non vuoi giocare a questo gioco non giocarlo. Farai altro, trova i tuoi ritmi, scegli.
Siamo noi adulti ad aver costruito un’idea di mondo dove chi arriva non trova il suo posto: anziché stare al passo di chi resta indietro si corre avanti senza voltarsi, ogni esitazione è una colpa. I voti, le pagelle, i giudici, le gare. Nella vita, a scuola, nei talent in tv: ovunque è una corsa a escludere chi brilla di meno, chi “funziona” di meno nel circo della reputazione fasulla, posticcia.
La favola di Esopo, della lepre e della tartaruga, dovrebbe essere presa come esempio da tutti: a vincere non è chi corre più veloce degli altri, ma chi nella vita parte in tempo e segue una sua andatura naturale, costante. Ma la questione non è solo in termini di vittoria, perché c’è una questione ancora più profonda e angosciosa da analizzare: tutta questa fretta ci disorienta, non troviamo più la strada giusta, abbiamo perso il senso del “dove andare” e del “perché ci andiamo”. Corriamo e basta, perché così ci è stato insegnato e così ci è stato detto di fare. Bisognerebbe provare a spiegare ai più giovani che esiste la possibilità che le cose non vadano come gli altri si aspettano, non devi sentirti per questo “sbagliato”. Sbagliati sono quelli che giudicano.
Questo però non è un articolo contro la velocità; sono ben consapevole che la “velocità” di per sé può essere un ottimo alleato dell’essere umano. Il problema nasce quando la velocità viene considerata un Dio da servire, quando si cerca di fare sempre più cose in meno tempo, e il tempo non basta mai. È il tempo la nostra prigione. Il troppo presto, il troppo tardi, il troppo breve e il troppo poco.