Venerdì scorso all’Onu è andato in scena l’ultimo atto, in ordine di tempo, del crescente isolamento degli Stati Uniti, sulla carta la più grande potenza militare, la prima economia mondiale, capofila della più grande e potente alleanza militare. Il Consiglio di sicurezza doveva votare una risoluzione presentata dai Paesi arabi, in cui si chiedeva l’immediato cessate il fuoco, per motivi umanitari, del conflitto a Gaza, così da consentire all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per il soccorso ai palestinesi, di fornire l’assistenza necessaria ai milioni di sfollati in costante pericolo di vita e privi di cibo, acqua, protezione, che da ormai oltre due mesi vivono in condizioni disumane.
C’erano molte aspettative nei confronti del Consiglio di sicurezza perché deliberasse il cessate il fuoco. Le aspettative erano alte anche perché gli Stati Uniti avevano dato l’impressione, negli ultimi giorni, di volere porre un freno alla letalità delle operazioni militari israeliane nella striscia di Gaza. Il presidente Biden era rimasto in silenzio, limitandosi a riaffermare “il diritto di Israele a difendersi”; ma per lui avevano parlato vari alti esponenti dell’amministrazione e, da ultima, la vicepresidente Harris, chiedendo a Israele di “moderare” i propri attacchi e di rispettare il diritto umanitario di guerra. Alle prese di posizione ufficiali si aggiungeva l’allarme dell’opinione pubblica, americana e mondiale, di fronte all’evidenza dei massacri di civili. Anche la sinistra del Partito democratico, e le principali testate giornalistiche, premevano perché l’amministrazione passasse dalle parole ai fatti.
Quando venerdì sera al Palazzo di vetro si è arrivati al voto, la risoluzione è stata approvata da tredici Paesi su quindici, con l’astensione del Regno Unito e il solo voto contrario degli Stati Uniti. Ma poiché gli Stati Uniti hanno diritto di veto, assieme agli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza (Cina, Russia, Francia, Regno Unito), è stata di fatto bocciata. Il rappresentante americano ha dichiarato che il voto contrario era dovuto al fatto che la risoluzione non menzionava il diritto di Israele a difendersi né le colpe di Hamas. Ma naturalmente la sua posizione non ha convinto nessuno, in primis non il segretario generale Guterres, che il giorno precedente aveva sollecitato l’approvazione della risoluzione, condannando esplicitamente “gli orribili e repellenti atti di terrorismo perpetrati da Hamas il 7 ottobre 2023”.
E così questa che viene chiamata guerra, ma che guerra non è, continuerà aggiungendo altre migliaia di morti alle molte migliaia già accumulate. Non può essere chiamata guerra perché non è un conflitto tra due Stati, e neppure tra uno Stato e una forza irregolare in qualche misura tra loro paragonabili. Da una parte, c’è il potente dispositivo militare ipertecnologico dell’Idf (la Forza di difesa israeliana) con i suoi carri armati, elicotteri, bombardieri, navi, missili – una panoplia continuamente rimpinguata dagli aiuti militari americani. Dall’altra, ci sono i rudimentali razzi Qassam, quasi tutti intercettati dall’iron dome (“cupola di ferro”) israeliano; ci sono armi leggere, lanciarazzi, motociclette e pick-up. Naturalmente, anche con questi modestissimi mezzi è possibile montare attacchi terroristici e provocare un gran numero di vittime, com’è avvenuto il 7 ottobre, ma la disparità nella forza militare è evidente.
Proviamo però a mettere da parte lo sgomento per la grande quantità di morti e le sofferenze dei vivi e cerchiamo di guardare con freddezza a ciò che sta succedendo a Gaza e in Cisgiordania. Per quanto orribile, tutto ciò non è privo di precedenti, anche recenti, in cui un esercito molto più potente combatte contro miliziani militarmente molto inferiori. L’elenco di questi conflitti, in tutti i continenti, sarebbe numerosissimo: dalle guerre coloniali alle guerre di indipendenza, alle guerre rivoluzionarie, a quelle di natura etnica del secolo scorso, fino alle “guerre contro il terrorismo” del Ventunesimo secolo.
In tutti questi conflitti, ci sono tre costanti: la prima è che le vittime civili sono molto superiori, in un rapporto di almeno dieci a uno, rispetto alle vittime militari, compresi i miliziani o guerriglieri; la seconda è che i miliziani o guerriglieri usano quasi sempre strumenti terroristici per cercare di controbilanciare la sproporzione di forza militare e per fiaccare la volontà di combattere dello Stato nemico; la terza è che, prima o poi, lo Stato coloniale è costretto ad abbandonare il campo e ad allentare la propria morsa omicida sulla popolazione. Quello che segue dipende da un insieme di variabili, e non sempre produce un durevole miglioramento della situazione in termini di diritti umani.
Il conflitto israelo-palestinese è simile a quelli citati per la sproporzione della forza, ma molto diverso quanto a possibile esito. In Palestina ci sono due popoli, diversi per lingua, etnia e religione, che reclamano entrambi un diritto ancestrale alla terra. Cacciare l’occupante è impossibile, perché considera quella terra la sua madrepatria; mantenere in condizione di subalternità l’occupato è altrettanto impossibile, perché anche lui considera quella stessa terra come sua e non cesserà mai di rivendicarla. In teoria, la soluzione alle guerre coloniali o alle dittature etnico-militari è semplice: l’indipendenza, la democratizzazione. Ma nel conflitto israelo-palestinese occorrerebbero molti anni per dimenticare il reciproco odio, riconoscere la legittimità dell’avversario e costruire la fiducia necessaria a trovare un compromesso.
Ci vorrebbe soprattutto la coesione verso questo obiettivo da parte degli Stati che sono in grado – per storia, cultura e interessi economici – di influenzare i due contendenti. Per quel che riguarda Israele, Paese moderno e percepito come occidentale, sono i Paesi europei e soprattutto gli Stati Uniti a poterne indirizzare le decisioni. Non solo per l’asserita condivisione di valori democratici, ma per il molto concreto motivo che sono gli Stati Uniti a fornire a Israele buona parte degli armamenti con cui si difende e aggredisce; e a proteggerlo dalla condanna della comunità internazionale.
Non solo Israele. Da circa mezzo secolo (dalla guerra dello Yom Kippur del 1973) gli Stati Uniti hanno intensificato i rapporti economici e di forniture militari anche con la maggior parte dei Paesi arabi del Medio Oriente e Nord Africa, soprattutto Egitto e Arabia saudita. Anche da parte dei palestinesi sono stati visti per un certo periodo (fino al fallito accordo tra Ehud Barak e Yasser Arafat, mediato da Bill Clinton nel 2000) come un honest broker, un “onesto intermediario”, in grado di spingere le parti – entrambe le parti – a un accordo. Ora non più. Anche se i governi dei Paesi arabi coltivano con il governo americano rapporti di interesse e di collaborazione, le popolazioni arabe, e prima fra tutte quella palestinese, non considerano più gli Stati Uniti un mediatore imparziale. E cresce nei loro confronti il risentimento per il continuo sostegno a Israele, critico a parole ma inefficace nei fatti.
Nessuno può dire o prevedere se la potenza americana, il suo primato, sia oggi in declino e se, quando e a vantaggio di chi tramonterà, com’è avvenuto per altre potenze egemoni nel corso della storia. Quello che è certo è che il progressivo autoisolamento degli Stati Uniti nei consessi mondiali, evidenziato dal voto di venerdì al Consiglio di sicurezza, in cui Paesi amici e alleati degli Stati Uniti hanno votato insieme ai suoi avversari e ai Paesi del “Sud globale”, non è un segno di solitaria grandezza, ma di debolezza – come di chi, a causa delle proprie contraddizioni e del proprio doppio standard morale, ha perso la credibilità e anche il rispetto di gran parte del mondo.