Il Sudafrica ha ricordato con misura i dieci anni dalla scomparsa (5 dicembre 2013) del suo eroe nazionale e liberatore dall’apartheid, Nelson Mandela o “Madiba”, come veniva chiamato dal suo clan. Non c’è stato alcun evento ufficiale. Mandela è stato commemorato in una cerimonia a Johannesburg, con l’intervento del premio Nobel per la pace 2014, Malala Yousafazi, l’attivista pachistana che si batte per l’educazione per tutti, e in particolare per le bambine. La famiglia ha deposto mazzi di fiori ai piedi della statua di Mandela, nella capitale Pretoria, dove si è vista la presenza di alti dirigenti di Hamas. Mandela è sempre stato un grande sostenitore della causa palestinese, e non aveva certo dimenticato le complicità di Israele con il regime dell’apartheid. Il presidente sudafricano, Cyril Ramaphosa, già leader del sindacato e compagno di lotta di Mandela, non ha pronunciato alcun discorso ufficiale.
Il fatto non ha destato particolare stupore, probabilmente anche per le difficoltà che il Paese sta attraversando e che hanno coinvolto anche lo stesso Ramaphosa. La figura di Mandela rimane intatta, anche se si è cominciato – com’è giusto che sia – a giudicare in modo critico, cioè oltre l’agiografia, la sua lotta contro l’apartheid e il periodo della sua presidenza (1994-1999). La nostalgia per la sua figura di combattente per la dignità e la libertà dei sudafricani di colore si mescola con la delusione nei confronti della realtà di oggi, in cui troppo poche cose sembrano essere cambiate.
L’African national congress (Anc), il movimento di Mandela sempre al potere dalla fine dell’apartheid, è oggi un partito politico largamente screditato a causa delle lotte tra clan di potere, e per la corruzione e gli scandali che hanno minato la sua credibilità e popolarità. Il Paese della discriminazione per eccellenza, ai tempi dell’apartheid, è rimasto oggi quello col più alto indice della disuguaglianza di reddito al mondo, secondo l’indice Gini calcolato dalla Banca mondiale. Un macigno che pesa sul presente e sul futuro del Sudafrica, e rende evidente il fallimento di tutte le politiche intraprese, da parte dei governi dell’Anc, ormai da quasi trent’anni.
Il Sudafrica, dopo la Nigeria, è la seconda potenza economica del continente. A differenza della Nigeria, dove il Pil è “drogato” dal petrolio e dal gas, quella sudafricana è l’economia più industrializzata. Eppure è un’economia estremamente fragile. Il culmine è stato raggiunto all’inizio di quest’anno, quando a febbraio il presidente Ramaphosa è stato costretto a dichiarare lo stato di “catastrofe nazionale” dovuto all’insufficienza di energia elettrica, dopo molti mesi di continui blackout. Fino all’estate, la popolazione e i diversi settori economici, anche quelli che impattano sulla vita quotidiana delle persone, come l’acqua potabile e altri servizi essenziali, hanno ricevuto l’energia elettrica razionata e solo in orari programmati, con evidenti fortissimi disagi.
Alle origini della grave crisi, c’è la situazione della società elettrica statale Eskom, al centro, durante la presidenza Zuma (2009-18), di una massiccia opera di corruzione e sistematico saccheggio, che l’ha appesantita di debiti limitandone la capacità di produrre elettricità. Zuma sarà poi costretto a dare le dimissioni sotto le pesanti accuse di corruzione. La sua presidenza è stata oggetto di un’inchiesta, e, per essersi sottratto all’indagine, l’ex presidente è stato condannato nel giugno 2021 a quindici mesi di prigione, poi rilasciato per motivi di salute, dopo che il suo arresto aveva provocato una reazione violentissima da parte dei suoi sostenitori.
Lo stesso presidente attuale, Ramaphosa, è stato incriminato, ma il voto compatto dei parlamentari dell’Anc gli ha evitato di essere messo in stato di accusa. Dal 16 al 20 dicembre l’Anc si riunirà nel congresso che dovrà decidere circa la leadership di Ramaphosa. Se il presidente sarà riconfermato, sarà lui il candidato dell’Anc all’elezione presidenziale, prevista entro l’estate del prossimo anno. Non sarà un’impresa facile, perché i sondaggi, da molti mesi, danno l’Anc per la prima volta al di sotto della soglia del 50%. È il prolungamento di una crisi che data da tempo; nelle elezioni legislative del maggio 2019 era uscito ridimensionato, pur restando il primo partito. E l’Anc si presenterà alla scadenza elettorale ancora più indebolito dalla sfiducia dei suoi sostenitori, che hanno ridotto le sue capacità finanziarie: tanto che negli ultimi tempi si è persino profilato un rischio di bancarotta per il partito.