Sarebbe stranoto che le guerre si facciano ponendosi degli obiettivi, e magari anche un termine temporale entro cui raggiungerli. Ma da un certo momento in poi – diciamo, a voler far data, dall’attentato alle Torri gemelle del 2001 – sembra che sia codificato un altro tipo di conflitto bellico, quello della “guerra infinita”. Qualcosa che non scaturisce da un proposito realistico, e il cui prototipo, se vogliamo, fu quello dell’invasione dell’Afghanistan da parte statunitense e occidentale. Si sarebbero dovuti sgominare i talebani, costruendo, per la prima volta in quel Paese, uno Stato nazionale democratico o almeno con una parvenza di democrazia – ma com’è terminata quella guerra? Con il ritorno dei talebani, con l’abbandono delle donne e degli uomini che avevano creduto in una prospettiva “occidentale”, allo stesso regime da cui erano usciti, a costo di tanti lutti e distruzioni, vent’anni prima.
Si può parlare quindi di una trasformazione della guerra? Essa è certo sempre la stessa sotto molti aspetti, con i bombardamenti e le ferite inferte alla popolazione civile, costretta a fuggire o a lasciarci le penne, con gli insensati batti e ribatti (oggi ben visibili in Ucraina, dove le controffensive degli uni rimandano alle offensive degli altri, in un circolo vizioso). Ciò che appare diverso è la scelta degli obiettivi. Hitler, per folle che fosse il suo progetto, voleva il dominio sull’intera Europa. Nei primi mesi, e fino a tutto il 1940, parve che quell’obiettivo fosse a portata di mano: cosicché Mussolini ruppe gli indugi e condusse l’Italia in guerra per potersi sedere al tavolo della pace. Calcolo sbagliatissimo, eppure non privo di una parvenza di realismo.
Oggi per che cosa combattono gli ucraini? All’inizio – cioè nei primi mesi immediatamente successivi al 24 febbraio del 2022, giorno dell’invasione da parte della Russia – si difendevano da un attacco che mirava alla cancellazione della loro indipendenza, cioè della possibilità di scegliersi da soli da chi essere governati e come collocarsi nel quadro delle alleanze internazionali. La questione del Donbass, che pure c’era, appariva come il focolaio di una guerra a bassa intensità, trascinatasi per anni, presa come pretesto dalla Russia per scatenare qualcosa di molto peggiore di una controversia, sia pure armata, per ragioni di confine.
Ma adesso, dopo più di un anno e mezzo di morte e distruzione, per che cosa si combatte? Anche l’obiettivo – secondario ma non troppo – di indebolire Putin, sperando in una sua caduta sotto la pressione di un’opinione interna contraria all’avventura bellica, si è palesato privo di fondamento. Il dominio di Putin semmai si è consolidato – com’è sempre avvenuto con gli “uomini forti” che, grazie alla propaganda, attizzano il sentimento nazionalistico dei loro popoli –, e i soldati morti al fronte (per ciascuno dei quali le famiglie ricevono in rubli l’equivalente di circa cinquantamila euro) non fanno scandalo. Né le sanzioni occidentali né lo stravagante colpo di Stato, organizzato dal capo del gruppo Wagner (poi rapidamente liquidato), hanno avuto ragione della “grande madre Russia”. Si può dire, al contrario, che la vita quotidiana in quel Paese, in virtù della galvanizzazione che il conflitto bellico provoca a confronto di danni molto limitati, sia addirittura migliore oggi di quanto fosse prima dell’“operazione militare speciale”.
Sarebbe dunque arrivato, e non da ora, il momento per un “cessate il fuoco”, magari soltanto temporaneo, per vedere, intorno a un tavolo diplomatico, se non ci siano le condizioni di un armistizio o di una specie di tregua armata, che potrebbe consistere nel porre i territori contesi, in tutto o in parte, sotto controllo internazionale. Questa possibilità è però esclusa da Kiev. A un Putin saldamente in sella potrebbe far comodo mostrare come sia anche l’uomo della pace; ma ai nazionalisti ucraini – chiamiamoli con il nome che spetta loro –, per un calcolo politico che attiene ai rapporti con l’Occidente (e con l’Unione europea in particolare), fa invece comodo continuare a distruggere vite umane, escludendo qualsiasi trattativa. Una guerra siffatta potrebbe ormai dirsi “infinita”: non pone alcun obiettivo realistico, non è “la continuazione della politica con altri mezzi”, quanto piuttosto la politica stessa. Che, nel caso, è imperniata sul mito di una Ucraina bastione dell’Occidente e della democrazia in quanto tali. Come se non si sapesse, invece, che quel conflitto rientra in una storia di lunga durata, interamente post-sovietica, consistente nella complicata dissoluzione di un impero. A riprova di ciò, varrebbe la pena ricordare che la Georgia, in maniera più realistica di quanto non faccia oggi l’Ucraina, sopporta l’occupazione del 20% del proprio territorio da parte della Russia fin dal 2008.
Cambiamo scenario, andiamo in Medio Oriente. Qua la politica israeliana degli scorsi decenni – contraria di fatto alla prospettiva “due popoli, due Stati” – ha coltivato l’illusione che, con l’indebolimento dell’Autorità nazionale palestinese e giocando sulla sua divisione dai rivali estremisti di Hamas, si potesse tenere sotto controllo la situazione, sia pure pagando il prezzo di una tensione incessante e di qualche limitato attentato terroristico. Tutto è cambiato con il feroce attacco, non prevenuto dall’intelligence israeliana, del 7 ottobre scorso. Ora, l’intenzione manifestata di distruggere per sempre Hamas è priva di qualsiasi contenuto razionale. Hamas ha un suo braccio armato che può essere militarmente sconfitto, ma è essenzialmente un movimento politico radicatissimo a Gaza, con le sue connessioni internazionali. Sarebbe pronto a rifondarsi e a ritornare fuori dopo la peggiore delle disfatte. Inoltre, tenendo conto che in ballo ci sono degli ostaggi, e avendo già trattato per liberarne alcuni, non si comprende perché non si possa seguitare su questa strada. Se ci si è sottoposti a una trattativa una volta, ci si potrebbe sottoporre a una trattativa una seconda volta. E se si è arrivati a una tregua temporanea, si potrebbe arrivare a un’altra tregua ancora, offrendo, dopo settimane e settimane di bombardamenti, una chance alla popolazione civile di Gaza. E ancora: con il ritorno come interlocutore e protagonista di una mediazione dell’Autorità nazionale palestinese, si potrebbe puntare non solo a ridurre la tensione, ma anche, chissà, a riproporre la soluzione “due popoli, due Stati”.
L’attuale dirigenza israeliana però si guarda bene dall’intraprendere la via del negoziato, l’unica che potrebbe dare perfino un senso, per quanto tenebroso, alle distruzioni e alle uccisioni finora compiute indiscriminatamente a Gaza. No, a essere perseguita è la “guerra infinita”, priva di sbocchi. C’è allora qualcosa di più del sospetto che uno sfrenato spirito di vendetta serva a Netanyahu e soci per ragioni di rafforzamento all’interno, tenendo conto della scarsa popolarità di cui godevano già prima di questa crisi.