Sembra davvero singolare, ma forse anche inevitabile, che nessun dirigente politico, né di governo né di opposizione, abbia ritenuto utile e doveroso intervenire sull’ultimo rapporto Censis sullo stato del Paese. Singolare il disinteresse, perché il lavoro del nostro principale centro di ricerca sociologica fornisce istantanee, e anche immagini in movimento, delle condizioni in cui il Paese sta incubando il suo futuro: materia prima per una politica che voglia cogliere queste tendenze proponendosi come interlocutore e mediatore degli attriti prodotti.
Ma inevitabile il silenzio, perché ancora una volta, seguendo una tradizione che inizia con il dibattito costituzionale del dopoguerra, la sociologia rimane una materia specifica imbarazzante per una politica che non sa come usarla, soprattutto a sinistra, esorcizzandola con un elitarismo miope, che riduce ormai l’attività dei partiti a un’alternanza fra i retaggi di un vecchio e ossificato ideologismo e l’irruzione di momentanee pressioni corporative di singoli interessi per singoli obiettivi. In questo scenario, cogliere i processi sociali implicherebbe non solo una visione complessiva della complessità, ma anche una determinazione nell’interferire (se non proprio riprogrammare) nei mutamenti che inerzialmente stanno ridisegnando la mappa socio-antropologica dell’Italia: il che non sembra essere nelle corde delle forze che oggi si contendono il consenso elettorale. Questa indifferenza all’evoluzione sociale sta portando a una progressiva espulsione dell’azione dall’orizzonte dei cittadini.
Il documento con cui l’istituto di ricerca (fondato e ancora guidato da Giuseppe De Rita) ha radiografato anche quest’anno la genetica sociale italiana ci appare come una forma di politica concentrata. L’elaborazione, nel suo sforzo di cogliere i linguaggi e le caratteristiche dei diversi microcosmi di interessi ed emozioni, si rivolge, ineludibilmente, proprio alla politica, mostrando, numeri e scenari alla mano, le ragioni di quel disincanto che sembra tanto stupire osservatori e interpreti dello scacchiere istituzionale. In particolare il Censis documenta e scompone quell’intorpidimento dei gruppi sociali, delle comunità che compongono il reticolo sociale, che conduce sia i privilegiati sia i disagiati a condividere uno stato di apatia politica, in cui manca ogni forma di ambizione individuale e di conflitto collettivo.
Scrivono i ricercatori: “La società italiana sembra affetta da sonnambulismo, precipitata in un sonno profondo del calcolo raziocinante che servirebbe per affrontare dinamiche strutturali dagli esiti funesti”. Riferendosi alle generazioni più giovani, i ricercatori parlano di “dissenso senza conflitto dei giovani, esuli in fuga (sono più di 36.000 gli espatriati di 18-34 anni, solo nell’ultimo anno)”.
La chiave di volta di questa cecità strategica, che non permette di cogliere le macroscopiche contraddizioni, è la congiuntura demografica, che mostra come nei prossimi decenni saremo un Paese di vecchi in un continente di pensionati. Un destino o il risultato di un’eugenetica sociale, per cui gli adulti negano ai bambini di sottrargli le risorse disponibili? Siamo dinanzi – ormai da tempo, verrebbe da constatare, visto che la bassa marea caratterizza da decenni il dibattito del Paese – appunto ai “sonnambuli”, un termine che l’immaginifica scuola di De Rita ha sicuramente mutuato da Hermann Broch che, negli anni Trenta, nel suo romanzo omonimo descriveva la crisi di valori di una borghesia ormai spossessata dalla contestazione del movimento operaio, che ne insidiava il primato, e da una nuova leva di capitalismo di Stato che ne violentava le regole.
Una condizione, quella del sonnambulo sociale, che attraversa trasversalmente l’intera cartografia sociale, come si legge nel rapporto che insiste sul fatto che il sonnambulismo non attiene “solo alle classi dirigenti: è un fenomeno diffuso nella ‘maggioranza silenziosa’ degli italiani. Resi più fragili dal disarmo identitario e politico, al punto che il 56,0% (il 61,4% tra i giovani) è convinto di contare poco nella società”.
Siamo proprio immersi in una rivoluzione passiva – direbbe Gramsci – in cui il disagio sociale, che pure è avvertito, non innesta movimenti di protesta o rivolta, ma solo un brusio, ancora meglio un ronzio, di sciami in cui ogni singolo si industria per sfuggire alla propria condizione di subalternità, sia costruendo tane sociali in cui rifugiarsi, persino rinunciando a quote di consumo pur di separarsi da attività stressanti e selettive, sia cercando protezioni corporative e neonazionalistiche, che ci proteggano dall’insidia di una globalizzazione senza regole. Uno stato di prostrazione, a cui si reagisce con un graduale ritiro della delega alla politica, testimoniato dagli ormai permanenti dati di astensionismo e di bassa partecipazione alla vita dei partiti. Una sindrome che colpisce soprattutto a sinistra, dove non sono percorribili scorciatoie populiste e plebiscitarie, mediante cui occasionali leadership neoperoniste scambiano microprivilegi (dai taxisti ai balneari, all’evasione fiscale in genere) con un mandato a rappresentare il Paese sulla scena globale.
Siamo in un clinamen al contrario, in una sorta di paralisi di ogni protagonismo pubblico, in cui, a differenza di quanto aveva intuito Epicuro, non si procede per correzioni progressive del destino, mediante un’azione polemica, conflittuale, ma si galleggia nel proprio “particulare” da integrare con prebende o privilegi del momento. Uno scenario crepuscolare, che vede declinare ogni meccanismo democratico e progressista, in cui la tecnologia – meglio ancora, quel processo di integrazione dei sensi umani con protesi sempre più autoportanti (le percentuali di utilizzo dei dispositivi intelligenti arrivano ormai attorno all’85%, con una naturale adozione dei social come forma di protagonismo privato) – identifica un nuovo linguaggio di élite planetarie, che fanno convivere il ribellismo passivo, quello tipico dei populismi reazionari, con una nuova forma di intermediazione automatica, affidata agli algoritmi profilanti.
Solo la capacità di afferrare direttamente questa contraddizione contemporanea – quella fra calcolanti e calcolati – potrebbe riallineare sul crinale di un conflitto moderno e radicale gli sciami di individui senza identità, ridando colore e calore a una dinamica sociale progressiva e progressista, che si contrapponga non allo sviluppo tecnologico, ma alla sua proprietà e confisca da parte di chi ci vorrebbe, ancora più che sonnambuli, semplicemente dormienti.