Forse il mondo finirà con una conferenza. La rappresentazione che sta andando in scena a Dubai con il nome di Cop28 è sospesa tra la tragedia e la farsa. Da ventotto lunghissime puntate rimbalza in un frullatore di eventi, in vari luoghi, la vicenda delle indispensabili misure per contenere l’aumento delle temperature sul pianeta. A ormai otto anni dagli accordi di Parigi, si sono succeduti periodicamente incontri e conferenze scarsamente produttivi, in una vera e propria saga di promesse non mantenute. Le ultime puntate, sempre meno convincenti, sono state quelle a Glasgow e a Sharm-el-Sheik (vedi qui e qui). Una sorta di via crucis della questione del riscaldamento globale costantemente rinviata, palleggiata, esorcizzata nelle maniere più diverse.
A Dubai, in casa dei petrolieri, a presiedere la conferenza il sultano al-Jaber, che, guarda caso, è anche l’amministratore delegato della compagnia petrolifera statale degli Emirati arabi uniti, Adnoc: il che crea un evidente conflitto di interessi, per non dire di peggio. Al-Jaber ha affermato che il phase-out, cioè l’eliminazione di carbone, petrolio e gas, “riporterebbe il mondo nelle caverne” e che “non è scientifico” sostenere che sia indispensabile eliminare i combustibili fossili per contenere l’aumento delle temperatura entro gli auspicati 1,5 gradi, suscitando reazioni indignate tra gli scienziati, che hanno giudicato le uscite del sultano “incredibilmente preoccupanti” e “al limite del negazionismo climatico”, provocando una secca risposta da parte dello stesso segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres. Bill Hare, amministratore delegato di Climate Analytics, ha dichiarato: “Si tratta di una sortita straordinariamente rivelatrice, preoccupante e bellicosa. ‘Rimandarci nelle caverne’ è il più vecchio dei tropi dell’industria dei combustibili fossili: è al limite del negazionismo”.
Questo non ha impedito che il primo giorno della conferenza, il 30 novembre, sia stato celebrato da molti media come un “successo”, perché finalmente è stata raggiunta una prima intesa sull’accordo sugli indennizzi ai Paesi poveri, che più risentono del cambiamento climatico, pur essendone solo in minima parte responsabili. In realtà, sono state destinate loro solo briciole: l’accordo, pomposamente definito “storico”, per rendere operativo il fondo loss and damage (“perdite e danni”) per i Paesi in via di sviluppo, è stato costituito con pochi spiccioli: gli Emirati arabi uniti hanno annunciato un impegno di cento milioni di dollari per il fondo, stessa cifra la Germania e l’Italia, quaranta milioni il Regno Unito, dieci milioni l’impegno del Giappone e solo 17.5 quello degli Stati Uniti.
Si tratta di impegni assunti volontariamente, e la cifra raggiunta per il momento è largamente insufficiente. Non è ancora chiaro, inoltre, da chi sarà gestito e supervisionato il fondo; si parla di un board amministrato dalla Banca mondiale, cosa che non piace a molti dei Paesi poveri, che non hanno avuto una relazione particolarmente felice negli ultimi decenni con la World Bank. I quattrini saranno versati a quanto pare una tantum, e non è definito in quale maniera dovrebbe essere periodicamente rialimentato il fondo, il che solleva seri interrogativi sulla sua sostenibilità a lungo termine, come ha fatto notare Harjeet Singh di Climate Action Network International. L’onere di adempiere i propri obblighi finanziari, commisurati al ruolo che hanno rivestito nella crisi climatica, spetta dunque alle nazioni ricche, anche se le risorse sono poche, e restano dubbi su come saranno utilizzate, come saranno spese e su quali progetti. L’accordo, inoltre, non dice nulla sul coinvolgimento delle comunità locali, delle popolazioni indigene e dei lavoratori terzomondiali, tra i più colpiti dalla crisi climatica.
Ma la posta in gioco a Dubai, evidentemente, non è solo economica, anche se non ci si intende nemmeno sui termini usati. Guterres, rispondendo indirettamente a al-Jaber, ha ribadito ai delegati della Cop28: “La scienza è chiara: il limite di 1,5°C è possibile solo se smettiamo di bruciare tutti i combustibili fossili. Non ridurre, non abbattere. Eliminare gradualmente, con un calendario chiaro”. Gli hanno fatto eco altri commenti autorevoli, che hanno ribadito come, per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, sia necessario ridurre rapidamente le emissioni di carbonio ed eliminare gradualmente l’uso dei combustibili fossili entro il 2035. L’alternativa è un futuro ingestibile per l’umanità, come ha detto Friederike Otto, docente dell’Imperial College di Londra, che ha così commentato le dichiarazioni ufficiali: “La scienza del cambiamento climatico si è espressa con chiarezza da decenni: dobbiamo smettere di usare combustibili fossili. Se non si riuscirà a eliminare gradualmente i combustibili fossili alla Cop28, altri milioni di persone vulnerabili finiranno nel mirino del cambiamento climatico”. Rischia di essere questa la pesante eredità della Cop28: la produzione di altri rifugiati ambientali e la crescita di conflitti dovuti alla desertificazione e alle inondazioni.
Tra i pochi aspetti positivi della conferenza, l’accordo raggiunto sull’agricoltura sostenibile, che sancisce la connessione fra cibo e cambiamento climatico, e assume la necessità di coinvolgere anche il cibo e il settore agricolo nel contrasto al global warming. Certo, non sarebbe stato male poter leggere qualche impegno su come realizzare una sicurezza alimentare inclusiva, sulla riduzione degli allevamenti intensivi, sulla promozione di un’alimentazione a base vegetale, per ridurre l’utilizzo dei pesticidi preservando i semi e la biodiversità, e per fermare la deforestazione. Ma di questo per ora non vi è traccia.
Così, tra minime acquisizioni, vuote dichiarazioni di principio, appelli al rilancio del nucleare, grida inarticolate contro l’“estremismo climatico”, in un miserere di luoghi comuni, va in scena a Cop28, in uno scenario barocco e subdolamente green, una tragicommedia, in cui campeggia una umanità cieca, inetta a gestire il proprio destino, incapace di cogliere i punti di svolta di un’era gravida di minacce. Analogamente a quanto descritto nel capolavoro di Karl Kraus sulla Prima guerra mondiale, Gli ultimi giorni dell’umanità, in cui, tra vacue chiacchiere di Stati maggiori e di uomini politici, i destini di un’umanità sciocca e miope vengono travolti da forze che spingono al massacro, e trascinano nel gorgo; mentre sul Titanic, per l’ultima volta, la musica risuona.