Uno dei gioiellini di cui la “giunta del fare” genovese va fiera è il “waterfront di Levante”. Ricostruiamo rapidamente la storia di questo progetto ancora in gestazione, che si inserisce in un ripensamento complessivo della relazione tra città e area portuale, e che, sul finire degli anni Novanta, prese le mosse con il ridisegno del porto antico a opera di Renzo Piano in occasione dell’Expo 1992. Nel mirino è ora un pezzo pregiato della città moderna, l’area della ex Fiera del mare, collocata in una posizione centralissima e privilegiata: un’area in cui esistono architetture degne di nota, come il Palasport, e dove anticamente sorgevano dimenticate spiagge, in un sito che è una sorta di belvedere naturale.
Se il precedente intervento di Piano aveva avuto il pregio di restituire alla città un rapporto con il mare, da decenni negato, quello che è in corso, affidato ancora alla progettazione dello studio Piano, quasi a volere segnare una continuità ideale e stilistica con quanto realizzato trent’anni fa, appare invece contraddistinto da una volontà di valorizzazione immobiliare. Il progetto prevede quattro lotti di circa 70mila mq, per un investimento che ammonta a trecentocinquanta milioni di euro, cui va aggiunto l’intervento dell’amministrazione comunale, che sta creando due canali tra loro perpendicolari che daranno vita a una vera e propria isola tra il Palasport e il Padiglione blu, firmato dall’archistar Jean Nouvel.
Spacciato per un progetto di rigenerazione urbana, l’intervento in corso persegue apertamente obiettivi di valorizzazione del sito, anche per garantire la sostenibilità economica dell’operazione. La vicenda della ex Fiera è infatti economicamente intricata, e ha visto un forte indebitamento pubblico, divenuto ancora più pesante a causa delle spese elevate sostenute per la realizzazione del padiglione di Jean Nouvel, in conseguenza del quale si è deciso, cinque anni fa, di alienare il sito fieristico. La faticosa ricerca di un soggetto investitore si è conclusa con la cessione del Palazzetto dello sport da parte di Cds Holding, e, in un secondo momento, delle aree circostanti, con l’eccezione del padiglione Nouvel, restato di proprietà pubblica. Un’operazione mediante la quale si cercava di tamponare, come affermano le stesse Linee programmatiche 2022-27 del Comune: “i buchi di bilancio” connessi alla Fiera di Genova così come “la rilevante e pericolosa esposizione del Comune e delle sue aziende verso il sistema bancario”.
Se la Fiera era uno spazio pubblico della città, ora, in conseguenza di questa operazione, la privatizzazione avanza: il nuovo waterfront consisterà principalmente in uffici, alberghi e trecento alloggi di lusso, pare già dimenticata la proposta iniziale di crearvi anche uno studentato. Particolarmente controversa è la vicenda del Palasport, ristrutturato e ceduto, di cui ora il Comune vorrebbe riacquistare per lo meno la parte sportiva, a un prezzo tra due e tre volte superiore ai quattordici milioni incassati con la vendita. Così si giustifica il vicesindaco Piciocchi: “Fummo costretti a fare quei passaggi. L’operazione di oggi nasce dalla valorizzazione della funzione pubblica del palazzetto. È vero che ha un vincolo di destinazione pubblica, ai sensi del piano regolatore, ma è anche vero che è un ibrido, perché abbiamo un immobile con funzione pubblica di proprietà privata. In questi anni c’è stato un risanamento finanziario delle aree, ed è andata a delinearsi l’idea di un progetto emozionale che faccia diventare il Palasport l’offerta di punta sportiva del territorio. Siamo quindi nella condizione di allineare il piano regolatore con il regime patrimoniale e riportare il palazzetto nella sfera pubblica, per una completa gestione del Comune (…), è come se avessimo venduto una vecchia Cinquecento in rottamazione e oggi comprassimo una Lamborghini”.
In realtà, il nuovo Palasport assumerà il nome di waterfront mall e, oltre a presentare una struttura sportiva, diventerà anche un centro commerciale all’americana, con oltre centoventi negozi, diciannove bar, e con al piano terra l’ennesimo grande supermercato in città, un ulteriore tassello della “supermercatizzazione” della città di cui abbiamo già parlato (vedi qui). Sempre più consistenti appaiono i dubbi sull’intera operazione: si procederà, infatti, alla privatizzazione totale di un’area pubblica subordinata agli interessi dei privati, seppure pagandola in gran parte con denaro pubblico, con un incremento esponenziale di spazi commerciali di cui non si avverte il bisogno. Viene nel contempo ridimensionata la funzione sportiva e di intrattenimento, che avrebbe dovuto essere il vero traino dell’operazione urbanistica; pare scomparire lo studentato, previsto a progetto, che avrebbe avuto lo scopo di contribuire a un rinnovamento demografico, fornendo opportunità di crescita per l’università.
Ciò che sembra interessare all’amministrazione è rendere appetibile Genova a chi ha denaro da investire in operazioni immobiliari, tentando di imitare in piccolo il discusso “modello Milano”, fatto di investimenti immobiliari e “grandi eventi”. Mediante una strategia comunicativa, si prova a vendere il brand della città, proponendola come una sorta di sobborgo di Milano sul mare. Non a caso, il progetto ha vinto il “Premio progetto d’Italia” indetto da Confindustria e Assoimmobiliare per la riqualificazione immobiliare e per le realtà del real estate, “superando perfino Milano” come ha dichiarato orgogliosamente il sindaco Marco Bucci. Ma il progetto dello studio Piano ha subito diverse modifiche in corso d’opera, fino a diluirne i contenuti iniziali, facendolo diventare quasi un logo, come ha notato l’urbanista Andrea Vergano: “Con una strategia promozionale che mescola in maniera disinvolta le riflessioni di Piano sull’urbanità con le più banali retoriche del marketing immobiliare”.
Sui siti delle agenzie si rincorrono richiami agli appartamenti di lusso che verranno venduti come “perle blu sul mare”, “scintillanti residenze piene di luce”; e si enfatizza la creazione dell’“isola che c’è”. Intanto un altro spazio pubblico della città sparisce, e il “frontemare” diviene appannaggio di pochi, mentre si spreca un’altra occasione di restituire alla città un sito unico, magari recuperando almeno in parte le perdute spiagge, com’è stato fatto invece, e molto bene a Barcellona.