Se sta aumentando la consapevolezza della piaga del femminicidio, ma così scarsi sono ancora i risultati nel contrastarla, significa che qualcosa nella comprensione del fenomeno ancora manca. Si potrebbe ipotizzare che la principale ragione riconduca a un’ipocrisia collettiva che rende la società incapace di cogliere l’essenza del fenomeno, nonostante ci piaccia pensare il contrario. Si fa un gran parlare, ci riempiamo la bocca, dei misfatti della cultura patriarcale – ed è verità –, della prepotenza dei maschi – e che ci sia lo dimostrano le guerre che insanguinano il pianeta –, della mistificazione di considerare la donna un oggetto di nostra proprietà. Tutto vero. Ma mai che si faccia riferimento alla fragilità maschile, alla mancata indipendenza – spesso non solo psicologica e affettiva ma anche materiale – di tanti maschi dall’esistenza, dalla vita e dal lavoro delle donne. Alla loro paura di vivere, in sostanza: da soli o accompagnati.
Proprio da qui suggerirei di partire: un maschio che sia davvero forte, realizzato, autorevole, difficilmente ha bisogno di ricorrere alla violenza fisica. Credo che andrebbe indagata la pulsione di morte che alligna nel maschio violento: l’insospettabile che a volte diventa omicida, lasciando increduli gli amici, i vicini, i parenti, incapaci di pensare che proprio quell’uomo sia diventato violento ed efferato – mite e tranquillo com’era o appariva.
Avanzo il dubbio che, al di sotto e prima dell’uccisione della donna, il femminicida celi un impulso suicida, che finirà purtroppo per mettere in atto per interposta persona. È utile in proposito ricordare come il giovane dell’ultimo femminicidio, in ordine di tempo, a chi lo arrestava abbia dichiarato: “Volevo farla finita, ma non ne ho avuto il coraggio”. Fragilità, impulso di morte e paura di provocarla, la morte, a se stessi. Non un carattere di manifesta, prevedibile, prepotenza. Almeno non sempre. Solo per ipocrisia collettiva attribuiamo al violento i connotati di una violenza intrinseca. Che tra le sue cause può annoverare invece disperazione, codardia, paura. Spingendo un potenziale suicida, che non ha trovato il coraggio, a perpetrare il più orrendo dei delitti. Non per questo meno tremendo, non meno colpevole. Ma certamente meno stereotipato. È un uomo lui stesso terrorizzato, quello che compie azioni efferate e terrorizzanti. Lui stesso schiacciato dalla sottocultura patriarcale, che vuol imporre lo stereotipo del maschio sicuro di sé. Padrone delle situazioni, di tutto e di tutti. Impermeabile al mondo dei sentimenti.
In un libretto del 2016, Maschi oltre la forza, autopubblicato dal collettivo “maschicontemporanei.it”, ho cercato di aprire un discorso di introspezione, suggerendo – oltre le parole – di penetrare nei meandri di verità che tendiamo a nascondere agli altri e a noi stessi. Sarà un lavoro lungo, che richiederà un’indagine impietosa circa l’idea che abbiamo del maschile, del femminile e del loro rapporto. Ma ci interessa essere politicamente corretti o estirpare la piaga del femminicidio?