Prima ancora della pubblicazione ufficiale dei risultati del voto del 14 novembre, il presidente uscente George Weah ha ammesso pubblicamente la sua sconfitta davanti al candidato avversario Joseph Boakai, col quale si è complimentato personalmente. Nel Paese in cui le guerre civili, tra il 1989 e il 2003, avevano fatto 250mila morti, senza contare l’epidemia di Ebola nel 2014-2016, l’elezione di Weah nel 2017 aveva suscitato una grande speranza. L’ex giocatore del Milan e del Paris St. Germain, Pallone d’oro nel 1995, unico africano a raggiungere questo traguardo, aveva rappresentato l’affermazione dei giovani e degli “indigeni”, i nativi locali contrapposti ai discendenti degli schiavi afroamericani, riportati all’inizio dell’Ottocento in Africa e sui quali era stata costruita la Liberia, la terra della libertà.
La sua presidenza è terminata con un bilancio piuttosto modesto, dal punto di vista economico e sociale, con inflazione, disoccupazione e povertà che si rincorrono. La sua scarsa esperienza, le sue ripetute assenze dal Paese, lo hanno identificato con una figura lontana dalla realtà. La corruzione, che aveva promesso di sconfiggere, rimane in eredità al suo successore, tentato ora di fargli pagare i conti di questa pesante eredità, mentre Weah invoca la pace, sul passato e sul presente.
Al di là delle ragioni di questa sconfitta, che regala alla Liberia l’unico esempio di un solo mandato presidenziale nella storia del Paese, l’alternanza pacifica dei poteri sembrerebbe non essere una pratica dell’Africa, soprattutto occidentale. I colpi di Stato militari in Guinea, Mali, Burkina Faso e, più recentemente, in Niger, cosi come il conflitto tra militari in Sudan, mostrano le difficoltà del potere civile. La ragione è in parte comune a tutti i Paesi: debolezza delle istituzioni, corruzione, nepotismo e familismo, partiti politici senza una vera base popolare, una società civile continuamente sotto la minaccia di repressione, nel quadro di economie con forti interessi stranieri e grandi disuguaglianze che non favoriscono una vita politica partecipativa e democratica.
Tuttavia, vi sono altri esempi di transizioni pacifiche riuscite. Un anno fa, in Kenya, il nuovo presidente William Ruto ha battuto il candidato Raila Odinga sostenuto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta. L’opposizione rimane effervescente, ma il Paese gode di riconoscimenti sul piano internazionale. Nairobi ha appena ospitato una fallimentare sessione dei negoziati per ridurre la proliferazione dei rifiuti di plastica nel mondo; ed è stata scelta qualche giorno prima da re Carlo III d’Inghilterra per condannare gli abusi coloniali, senza peraltro chiedere perdono, mentre nel Paese parte delle terre migliori continuano a restare in mani straniere.
In Zambia, Hakainde Hichilema, il presidente eletto nel 2021, dopo cinque tentativi falliti e diversi periodi di prigione, ha avuto il riconoscimento del suo predecessore, Edgar Lungo, candidato sfortunato alla propria rielezione. Ancora più recentemente, nel febbraio di quest’anno, la Nigeria, il Paese più popoloso e col più alto Pil del continente africano, ha visto l’elezione di Bola Tinubu dello stesso partito, l’All Progressives Congress, del presidente uscente Muhammadu Buhari, che ha consentito di rispettare il termine dei due mandati previsti dalla Costituzione.
Certo, in alcuni casi, la transizione pacifica si fa per successione dinastica repubblicana. In Togo la dinastia Gnassingbé regna dal 1967 al 2005 con Eyadema, e ora col figlio Faure. In Gabon la dinastia dei Bongo, che regnava dal 1967, è stata solo recentemente interrotta, con un colpo di Stato nell’agosto di quest’anno. In altri casi ancora, la transizione non si fa proprio. In Camerun Paul Bia si mantiene alla testa dello Stato ininterrottamente dal 1982. Al potere dalla fine del genocidio del 1994, Paul Kagame, l’uomo forte del Ruanda, è presidente dal 2003, e si appresta a candidarsi per il quarto mandato alle presidenziali del prossimo anno.
Nell’immediato, le manovre in vista delle future elezioni sono in atto in alcuni Paesi. Nella Repubblica democratica del Congo, tormentata da una guerra civile ininterrotta, si vota il prossimo 20 dicembre. Il presidente uscente, Felix Tshisekedi, è il favorito. Ha di fronte ventiquattro candidati, uno di questi, Martin Fayulu, si è appellato all’esempio di Weah nella speranza di un sogno impossibile: “Chi ha detto che in Africa un presidente in carica non organizza delle elezioni per perderle?”. Tshisekedi si è ben guardato dall’ammettere osservatori internazionali indipendenti.
In Senegal, il presidente uscente Macky Sall, non si presenterà, il 25 febbraio 2024, alle elezioni per il terzo mandato, rispettando così la Costituzione. Manovra però per preparare il terreno al suo delfino, Amadou Ba, semplicemente togliendo di mezzo il suo più pericoloso concorrente, Ousmane Sonko, messo fuori gara dalla macchina giudiziaria. Purché si voti, dirà qualcuno, soprattutto dalle parti di Parigi e di Bruxelles.