Domenica 19 novembre, l’Argentina ha scelto l’estrema destra. Lo ha fatto senza titubanze, dando a el loco, Javier Milei, il 56% dei voti, rispetto al 44% ottenuto da Sergio Massa, candidato del peronismo e ministro dell’Economia, responsabile di una gestione che ha portato il Paese al 142% di inflazione annua, e a una percentuale di povertà pari al 40%. Il risultato delle urne ha ancora una volta smentito i sondaggi, che davano i due in un pareggio tecnico, con l’anarco-liberista di un soffio più avanti. In termini di voti, quanto è successo rappresenta una vera e propria batosta per il peronismo, che ha avuto quasi tre milioni di preferenze in meno.
Una situazione mai vista prima, che ha mandato all’aria i calcoli di Massa. Il quale, per vincere, aveva puntato sulla divisione dello schieramento di destra, arrivando persino a preferire agli inizi – come ha ammesso nei giorni scorsi Carlos Maslatón, un ex alleato di Milei – colui che ai suoi occhi appariva come il candidato più debole perché più estremista, Milei appunto, rispetto alla destra di Juntos por el cambio di Patricia Bullrich e dell’ex presidente Mauricio Macri, considerati più pericolosi. Alla fine, se la destra era andata in ordine sparso al primo turno premiando Javier Milei, al ballottaggio si è ricompattata dietro al leon, come viene chiamato Milei dai suoi sostenitori, facendo naufragare le speranze di Massa. Così ha avuto la meglio il voto de bronca, il voto arrabbiato, sul voto de miedo, il voto per paura, su cui Massa contava per conquistare la Casa Rosada.
Il risultato ha spianato la strada a Milei, che ora avrà la possibilità di applicare le sue ricette da economista liberal-libertario, avendo come primo compito quello di mettere fine all’inflazione devastante, riducendo al contempo la povertà attraverso il ritorno della crescita economica, con le riserve al minimo e i pagamenti in sospeso al Fondo monetario internazionale. Una sfida da far tremare i polsi, in cui il peronismo ha tragicamente fallito. Nelle poche settimane che mancano alla sua investitura, il 10 dicembre, Milei dovrà scegliere chi farà parte del suo governo. Potendo contare su pochi profili appartenenti alla Libertad avanza, lo schieramento che gli appartiene, dovrà per forza di cose rivolgersi a quello dell’ex presidente Macri, il vero vincitore delle elezioni di domenica, che, da parte sua, aveva fin dall’inizio flirtato con il vincitore, in virtù della convinzione che, se eletto con i voti determinanti di Juntos por el cambio, alla fine Milei sarebbe stato un presidente debole.
La scelta delle personalità che saranno chiamate a far parte del nuovo gabinetto potrà dire molto su cosa potrà accadere in Argentina nei prossimi mesi, al di là delle promesse fatte durante la campagna elettorale. Tenuto anche conto che Milei si troverà a operare con un Senato in cui Unión por la Patria, l’attuale partito di governo, sarà la prima minoranza con 33 seggi. E lo schieramento di opposizione potrebbe aumentare fino a raggiungere la maggioranza di 37 seggi, grazie all’alleanza con alcune rappresentanze provinciali. La seconda forza sarà Juntos por el cambio, che conserva i suoi 21 seggi, mentre La libertad avanza, avrà solo 7 eletti. Quanto alla Camera, Milei si troverà a confrontarsi con i 108 deputati di Unión por la Patria, potendo invece contare sui 94 di Juntos por el cambio – se lo schieramento rimane integro e i deputati radicali non decideranno di non appoggiare il nuovo governo – e sui 38 seggi ottenuti da La libertad avanza.
Insomma, se le prime mosse di Milei confermano la sua volontà di procedere spedito sul suo programma, a livello parlamentare dovrà deporre la motosega, lo strumento impugnato in campagna elettorale per testimoniare plasticamente le sue intenzioni, e dovrà mettersi a negoziare. Un’arte in cui, almeno finora, non ha dato prove eccelse, dovendo trattare proprio con quella casta contro cui si è battuto. Senza nemmeno poter contare su un qualche sostegno a livello provinciale, dove gli è vicino solo un governatore, essendo gli altri peronisti, radicali, o espressioni locali pronte a schierarsi secondo convenienza. Sarà quindi interessante vedere come potrà dare seguito ad alcune promesse elettorali: una su tutte quella di eliminare la legge sull’aborto, conquista recente (2020) di un forte movimento femminista pronto a tornare in piazza.
“Oggi inizia la ricostruzione dell’Argentina, oggi inizia la fine della decadenza. Il modello impoverente dello Stato onnipresente è finito. Oggi torniamo ad abbracciare le idee della libertà, quelle dei nostri padri fondatori”, ha detto Milei, la sera della vittoria. E, almeno per il momento, ha confermato la volontà di ridurre lo Stato alla sua minima espressione, condannando alla chiusura ministeri come quello dell’Educazione, della Salute e annunciando la fine, progressivamente, di tutti gli aiuti sociali. Una campana a morto per la salute e l’istruzione, che in Argentina sono a oggi pubbliche e gratuite. Confidando totalmente che il mercato possa da solo risolvere i problemi grazie allo sviluppo del commercio e delle esportazioni, Milei propugna il superamento dei valori di uguaglianza e giustizia sociale,che hanno costituito le fondamenta della società argentina fin dall’inizio del secolo scorso.
Nelle sue prime prese di posizione, il neopresidente ha confermato la dollarizzazione e la chiusura della Banca centrale, responsabile dell’emissione di moneta, e ha annunciato una raffica di privatizzazioni. Nella sua prima intervista, come presidente eletto, Milei ha dichiarato lunedì che “tutto ciò che può essere nelle mani del settore privato sarà nelle sue mani”. In tal modo, le prime aziende statali a essere privatizzate saranno la compagnia petrolifera Ypf, la compagnia energetica Enarsa e il conglomerato dei media pubblici. Un ritorno in grande stile agli anni Novanta, quando il peronista liberista Carlos Menem non lasciò una sola società pubblica invenduta, finché nel 2012 Cristina Kirchner non portò nuovamente sotto il controllo statale Ypf, sottraendola a Repsol.
Nella sua narrazione, Milei ha indicato un futuro che è una sorta di ritorno al passato, quello di un’Argentina degli inizi del secolo scorso, un Paese allora felice e in rapida espansione, distrutto in seguito da uno “Stato paternalista”, causa di tutti i suoi mali. Nel suo proposito di eliminare quanto più è possibile dello Stato, Milei vuole portare il numero di ministeri da diciotto a otto.
È stato votato soprattutto dai giovani, nella memoria dei quali l’operato dello Stato non appare altro che una lunga traiettoria di fallimenti e corruzione, e dai ceti sociali medio-bassi colpiti dall’inflazione, per i quali il voto a Massa rappresentava solo un dilacerante permanere in una prospettiva senza futuro. A chi lo ha votato, le proposte di Milei sono apparse come una ventata di aria fresca. In tal modo, il voto è stato determinato dalla stanchezza per una situazione economica da cui era necessario finalmente liberarsi, anche a costo di un salto nel buio, come per tanti aspetti appare l’avventura proposta dal neoeletto, la cui proposta è quella di fare tabula rasa per ricominciare.
Contro la criminalità, pensa di ridurre i limiti di età in cui si può essere imputati, e vuole vietare l’ingresso nel Paese di “stranieri con precedenti penali”. È favorevole alla vendita delle armi da fuoco, come già il brasiliano Jair Bolsonaro, che non a caso è stato invitato alla cerimonia dell’investitura. Mentre dagli Stati Uniti l’ex presidente Donald Trump gli ha fatto sapere di essere fiero di lui. Vuole fornire tecnologia alle forze di sicurezza per restituire loro la loro “autorità professionale e morale”, e si è espresso a favore della “tolleranza zero” contro il crimine. Mentre la sua vice, Victoria Villarruel, che già è stata al centro delle polemiche per il suo negazionismo riguardo alle vittime della dittatura, vuole che alle forze armate argentine siano affidati compiti di sicurezza interna. Un compito che è loro vietato e che, a tutt’oggi, i militari sembrano riluttanti ad accettare. Quanto ai bilanci, Villarruel ha promesso che il budget militare passerà dallo 0,6% al 2% del Pil. Sul problema delle vittime della dittatura, Villarruel è a favore di quella che chiama “la memoria completa”, e recentemente ha proposto di chiudere il Museo della memoria dell’Esma, dove all’epoca era in funzione il più grande centro di tortura e sterminio, dichiarato “patrimonio dell’umanità” lo scorso settembre.
In politica estera, Milei sta con gli Stati Uniti, Israele e “il mondo libero”, e ha dichiarato di volere rompere le relazioni con il Brasile di Lula e con la Cina. Trattandosi dei due maggiori partner commerciali, ha gettato nello sgomento gli ambienti economici argentini, e ha dovuto sterzare affermando, nell’ultimo dibattito televisivo con Massa, di credere “profondamente nell’apertura al commercio internazionale”. Tuttavia, “penso anche che lo Stato non debba intervenire nelle relazioni commerciali. È una questione di privati”. Quanto alla recente decisione del governo in carica di entrare nei Brics, il suo governo non ne farà niente.
In questa situazione, se Cristina Fernández Kirchner rimane silente di fronte alla sconfitta e sembra fuori gioco, il kirchnerismo continua a governare, con Axel Kicillof, nella provincia di Buenos Aires, la più popolosa e importante di tutto il Paese. Potrebbe toccare al giovane governatore ed ex ministro di Cristina guidare la resistenza del peronismo a Milei dal suo fortino. In attesa che un suo possibile fallimento apra di nuovo le porte della Casa Rosada a qualche pronipote di Juan Domingo Perón. Con Alberto Fernández, consegnato alla damnatio memoriae, e Massa, sconfitto, a leccarsi le ferite, sembra lecito chiedersi se l’ampio schieramento di cui hanno fatto parte con Cristina rimarrà unito. O se, invece, non assisteremo nei prossimi mesi a un doloroso, lungo processo fatto di scosse, riposizionamenti e persino scissioni, necessari a partorire una fiammante e ultima creatura del camaleontismo peronista capace di riprendersi il potere.