Da quando, nella penisola iberica, le due dittature – quella portoghese di Salazar abbattuta nel 1974 da un gruppo di militari democratici, e quella spagnola di Franco terminata nel 1975 con la morte del caudillo – hanno lasciato spazio alla democrazia, le due sinistre socialiste, e non solo loro, hanno giocato un ruolo decisivo nello sviluppo dei rispettivi Paesi. Madrid e Lisbona si trovano oggi ad affrontare scenari diversi ma non privi di assonanze. In Spagna il premier socialista, Pedro Sánchez, è riuscito per la terza volta a essere eletto presidente del governo con 179 voti favorevoli e 171 contrari, formando così un nuovo esecutivo di sinistra. Un successo raggiunto grazie all’accordo (vedi qui) con gli indipendentisti catalani di Junts per Catalunya di Carles Puigdemont e con Marta Rovira, ex segretaria generale della Esquerra republicana de Catalunya (Erc), rispettivamente in esilio a Bruxelles e a Zurigo: un accordo che prevede la promulgazione dell’amnistia per i due leader e altri prigionieri politici, trattati fin qui alla stregua di terroristi.
L’esecutivo ha al suo interno la coalizione Sumar – fondata dalla ex ministra del Lavoro, Yolanda Díaz – che ha di fatto sostituito Podemos, ed è sostenuto dall’esterno dai due già citati partiti catalani, da quelli baschi Bildu e Pnv, dal partito galiziano Bng e, infine, da quello delle Canarie. Contrari il Partito popolare di Alberto Nunez Feijòo e i neofranchisti di Vox, capeggiati da Santiago Abascal.
Quello di Sánchez è stato definito un “miracolo politico” che dimostra l’abilità e il coraggio di un leader navigato e scaltro. Il 28 maggio scorso, i socialisti erano usciti fortemente ridimensionati dal risultato delle amministrative (vedi qui). A quel punto, Sánchez aveva di fronte due possibilità: da un lato, aspettare le elezioni rischiando però di farsi cuocere a fuoco lento; dall’altro, sciogliere le Camere – misura messa in atto dal re Felipe su indicazione del premier – e indire elezioni anticipate, tenute infatti il 23 luglio scorso. Una sfida che in un primo momento Sánchez aveva perso, perché, pur conseguendo un risultato dignitoso, il Psoe era stato sorpassato dal Partito popolare, che però non è riuscito a formare un esecutivo, in virtù della provvidenziale sconfitta dell’estrema destra.
Il resto lo abbiamo già raccontato: l’intesa con Barcellona e la conseguente fiducia delle Camere. Sánchez si conferma così, senza tema di smentita, il leader di sinistra più forte – il titolo della sua autobiografia è Manuale di resistenza – nell’addormentato mondo delle socialdemocrazie europee. Lo dimostra anche l’annunciato e prossimo riconoscimento dello Stato di Palestina. Il premier avrà ora di fronte un Paese diviso – come le imponenti manifestazioni contro l’amnistia di questi giorni, l’ultima sabato scorso, hanno dimostrato – e in cui ritorna a galla la storica rivalità tra Madrid e Barcellona, che risale almeno ai tempi della guerra civile e si estende plasticamente allo scontro tra le due potenti squadre di calcio.
Il timore, ovviamente amplificato dalla destra, soprattutto da quella neofranchista, è che l’amnistia, che sarà il primo atto di governo, possa aprire la strada a un’improbabile secessione della Catalogna. Più realisticamente, il fronte indipendentista si accontenterà di più ampi margini di autonomia consapevole dato che una caduta del governo, causata da un ritiro del loro sostegno, potrebbe aprire la strada, nel caso il Partito popolare vincesse eventuali elezioni anticipate, alla destra, con tutto ciò che questo significherebbe. Senza dimenticare che gli stessi catalani, in maggioranza, appaiono poco interessati alla nascita di una nuova piccola patria.
Una delle ragioni della sconfitta dei popolari sta invece nell’eccessivo appiattimento sulle posizioni di Vox. Aspetto, questo, che ha impedito loro di realizzare un accordo con quei piccoli partiti, che i neofranchisti vorrebbero mettere addirittura fuorilegge attraverso una proposta che non ha verosimilmente alcuna possibilità di essere approvata. L’ultima carta da giocare per Feijòo è fare ricorso all’Europa, nella speranza che l’amnistia venga considerata come una violazione del diritto europeo al pari di quelli della Polonia e dell’Ungheria. Ma, con tutta evidenza, si tratta di un tentativo destinato al fallimento.
A conferma dell’inutilità di questa iniziativa, c’è stato l’arrivo delle congratulazioni a Sánchez da parte dei vertici europei, da Charles Michel a Ursula von der Leyen, che per la verità avrebbero preferito un’alleanza tra socialisti e popolari, a dimostrazione dell’allergia dell’Unione europea verso qualsiasi spostamento a sinistra dei Paesi membri. Abascal, il leader di Vox, però non si arrende, e, con sprezzo del ridicolo, ha paragonato Sánchez a Hitler – che semmai dovrebbe far parte del pantheon del suo partito –, sostenendo che anche lui era arrivato al potere con le elezioni per instaurare una dittatura. Una deriva pericolosa, una sorta di piccola “strategia della tensione” in salsa iberica, ben stigmatizzata dal professor Steven Forti, docente di Storia contemporanea dell’università autonoma di Barcellona e autore dell’importante saggio Extrema derecha 2.0. “L’estrema destra – ha detto lo studioso in una recente intervista, rilasciata all’agenzia Agi – sta cercando di spargere menzogne in Spagna e altrove. Le accuse che rivolgono a Sánchez di essere un ‘traditore’, di svendersi ai separatisti e volere la distruzione del Paese, non stanno né in cielo né in terra”. A ciò Forti aggiunge un’interessante considerazione: “La destra – sostiene il professore – si è definitivamente trumpizzata: convoca, appoggia e partecipa a manifestazioni che assaltano le sedi del Partito socialista. Vogliono un Capitol Hill spagnolo!”.
Ma il vero problema per Sánchez riguarda la maggioranza delle giunte regionali, governate dalla destra, senza dimenticare quella magistratura, ovvero l’Audiencia nacional (cioè la Corte di Madrid, con giurisdizione sui crimini particolarmente gravi, come il terrorismo), che aveva spiccato un mandato di arresto nei confronti di Puigdemont e di Rovira. L’accusa, che sarà cancellata dall’amnistia, era di avere orchestrato le manifestazioni dell’ottobre 2019.
Sánchez ha cominciato la sua avventura come capo del governo spagnolo nel giugno del 2018, quando sostituì il popolare Mariano Rajoy destituito dal Congresso con una mozione di sfiducia. Quell’esecutivo durò fino all’aprile 2019. Sánchez rimase in carica per gli affari correnti fino alla ripetizione elettorale del novembre 2019, indetta a causa dello stallo tra i partiti, incapaci di formare una nuova maggioranza, malgrado una sostanziale omogeneità politica. La nuova tornata elettorale fu vinta dal Psoe e, nel gennaio del 2020, Sánchez diede il via al suo secondo mandato alla guida della citata coalizione.
Come abbiamo accennato nell’incipit di questo articolo, a questo tormentato – ma alla fine vittorioso – percorso della sinistra spagnola fa riscontro in Portogallo una possibile ritirata dei socialisti dalla guida del Paese, a causa di un incidente che assume i caratteri, non v’è dubbio, di una tragicommedia politica: nel Psp è scoppiata una questione morale che ha fatto crollare il partito, secondo i sondaggi, dal 41,2% delle scorse elezioni al 25,1. Lo scorso 12 novembre, una intercettazione telefonica da parte della magistratura portoghese, nell’ambito dell’Operation Influencer, ha comportato un’accusa di corruzione nei riguardi del primo ministro, il socialista Antonio Costa, in carica ininterrottamente dal 2015, segretario del partito dal 2014, con le conseguenti sue dimissioni, malgrado si sia sempre dichiarato innocente, e la successiva convocazione delle elezioni anticipate fissate per il 10 marzo 2024. Peccato che, in conseguenza di un errore di trascrizione, il vero Costa sotto inchiesta – ed ecco l’aspetto comico della vicenda – era Antonio Costa Silva, ministro dell’Economia. A segnalare l’errore ai giudici è stata la difesa di Diogo Lacerda Machado, uno dei fedelissimi del premier, tra i cinque arrestati. Immediatamente, dalla procura è arrivata l’ammissione dell’errore – ma intanto la frittata era fatta. Ora, suo malgrado, la storia politica di Costa – che nel primo suo mandato, esattamente dal 2015 al 2019, si era avvalso del sostegno dei comunisti e del Bloco de esquerda, formando così una coalizione simile a quella di Sánchez – sembra arrivata al capolinea, nonostante il grande successo nelle elezioni del 2019, pur non avendo più l’appoggio della sinistra della coalizione.
Il futuro politico del Portogallo appare così denso di incognite, e la lunga esperienza di governo dei socialisti rischia di finire. Il primo atto sarà lo scioglimento del parlamento, da parte del presidente Rebelo de Sousa, tra fine dicembre e inizio gennaio, e poi il voto appunto in marzo. Costa, nel frattempo, resta primo ministro ad interim per poi, molto probabilmente, lasciare la politica. Il partito che espresse nel 1976, con Mário Alberto Soares, il primo premier dopo l’esperienza dei militari che aprirono la strada alla democrazia, controlla 120 seggi su 230 all’Assemblea nazionale. Il principale avversario storico del Partito socialista è il Partito socialdemocratico (Psd), dato intorno al 27%, il quale, a dispetto del nome, è una formazione politica di stampo cattolico-liberale, che in Europa siede nei banchi dei popolari, e il cui leader è Luís Montenegro.
Un po’ come in Spagna con il Partito popolare, la vittoria del Psd portoghese apparirebbe certa, ma una sua affermazione potrebbe non essere sufficiente a governare. In tale caso sarebbe necessaria un’alleanza con il partito di estrema destra Chega di André Ventura, un uomo che, da un iniziale moderatismo – proviene proprio dal Psd –, ha assunto via via posizioni sempre più razziste e iperliberiste. Il suo partito, oggi, è la terza forza in parlamento con 12 seggi dietro al Psd con 77; ma Montenegro ha sempre escluso un’alleanza che sarebbe a dir poco imbarazzante.
A questo punto, le strade sono due. Escludendo un’intesa tra Psd e Chega – ma mai dire mai –, le ipotesi sono: o una grande coalizione tra i due principali partiti, soprattutto se i socialisti presenteranno come candidato il moderato José Luís Carneiro, ministro degli Interni; o, invece, una riedizione di un governo di alleanza a sinistra, se dovesse prevalere all’interno del Partito socialista il candidato più di sinistra, l’ex ministro delle infrastrutture Pedro Nuno Santos, grande sostenitore nel 2015 della soluzione detta geringonça (un termine polemico che sta a significare qualcosa come un pasticcio destinato a non funzionare), al momento favorito nella corsa alla leadership socialista. Come abbiamo sottolineato, le assonanze con lo scenario spagnolo ci sono; ma la differenza fondamentale riguarda l’assenza, nella sinistra portoghese, di un dirigente della caratura di Sánchez.