Si può indicare una data di inizio della interminabile tragedia argentina. È il 20 giugno 1973: quel giorno a Ezeiza, l’aeroporto di Buenos Aires, si diedero appuntamento le componenti di sinistra e di destra del peronismo per salutare il ritorno del loro beniamino da un esilio (nella Spagna di Franco) durato diciotto anni. Finì in una carneficina. I gruppi armati dell’organizzazione paramilitare di estrema destra, la Tripla A (Alleanza anticomunista argentina), agli ordini di López Rega, stretto collaboratore di Perón e membro tra l’altro della P2 di Gelli, aprirono il fuoco sulla folla facendo almeno tredici morti e un altissimo numero di feriti. Da parte sua, la sinistra peronista, che aveva nei montoneros la punta di diamante, aveva da tempo intrapreso un’attività guerrigliera, con attentati, rapimenti, uccisioni (la più famosa di tutte, quella del generale Aramburu, tra gli organizzatori del colpo di Stato che, nel 1955, aveva rovesciato Perón).
Quel giorno, con il ritorno del suo leader carismatico, che ormai invecchiato (sarebbe morto l’anno successivo, nel 1974) non riusciva più a tenere insieme le contrastanti correnti del suo movimento, si celebrò l’anteprima di una tragedia le cui tappe successive furono il nuovo golpe dei militari, nel 1976, il lungo orrore dei desaparecidos, e infine l’avvento di una strana democrazia, in cui un peronismo, emendato ormai dei suoi aspetti rivoluzionari come di quelli più scopertamente fascisti, ha fatto comunque il bello e il cattivo tempo, continuando a totalizzare il campo politico, anche attraverso lo storico controllo delle organizzazioni sindacali. Basti pensare che, negli anni Novanta, il presidente Menem e il suo ministro Cavallo, pur peronisti, con una virata di centottanta gradi, abbandonarono il tradizionale statalismo per darsi a ricette politiche liberiste, facendo già una prima e infausta prova di dollarizzazione dell’economia.
Il problema dell’Argentina è il suo essersi trovata ad affrontare situazioni vieppiù disastrose – nel senso di una crescita della povertà, di un’inflazione indomabile, di un fallimento dello Stato – priva di una bussola e sempre mediante una stessa formula politica dominante, quella che, a partire dai primi anni Duemila, con i coniugi Kirchner la condusse di nuovo “a sinistra”. In altre parole, il Paese non si è mai liberato dal vizio originario di un movimento che copre l’intero spettro delle opzioni politiche. Con la conseguenza che tutto ciò che tende a fuoriuscirne, quando non è puro e semplice golpismo, è comunque qualcosa di estremo sul piano economico-sociale (lo si è visto anche con l’altra parentesi neoliberista, quella della presidenza Macri, tra il 2015 e il 2019), cioè una difesa a oltranza da parte di quella “oligarchia” che, almeno sulla carta, è l’avversario sociale del peronismo.
Quanto accade oggi nel grande Paese sudamericano, con l’avvento alla presidenza di un “pazzo” anarco-liberista, che minaccia di vanificare qualsiasi sia pure residua forma di Stato sociale, non è dunque se non l’ultima variante di una vicenda densa di ritorni ciclici, ultimo atto di quel prolungato scherzo della storia che ha impedito una dialettica democratica basata sull’alternanza tra forze più conservatrici e forze più progressiste. Si dirà: è un destino caratteristico dell’America latina in generale. Questo è vero, ma solo fino a un certo punto: perché in Argentina la cosa si presenta nei suoi termini paradigmaticamente esemplari. In Brasile, per parlare di un Paese che ha vissuto qualcosa di analogo, si è assistito sì con Bolsonaro al ritorno di un’estrema destra liberista e filogolpista; ma è anche vero che Lula e il suo Partito dei lavoratori hanno da tempo intrapreso una via socialdemocratica, non amalgamabile al tradizionale populismo latinoamericano. In Argentina, invece, proprio la coppia dei Kirchner, e in seguito il presidente uscente Alberto Fernández, non hanno modificato di un ette la classica impostazione peronista: fino al punto che, l’antagonista del candidato anarco-liberista, il ministro dell’Economia Sergio Massa risultato perdente, ha potuto presentarsi come “di centro” – a riprova ulteriore del fatto che il peronismo è un camaleonte in grado di mutare pelle per ricoprire qualsiasi spazio politico. Ma proprio da questo incessante sconvolgimento del codice simbolico di una “destra”, di una “sinistra”, e perfino di un “centro”, può venire fuori, per contraccolpo, uno come Milei, il presidente oggi eletto. Che ha avuto buon gioco, nel corso di una frenetica campagna elettorale, a scagliarsi contro la corruzione di un sistema politico da sempre bloccato.