Due secoli e mezzo fa, Samuel Johnson disse che il patriottismo è “l’ultimo rifugio di un mascalzone”. Forse è così, ma in America come altrove il patriottismo è sempre servito anche per convogliare consensi sul leader al potere. Uno scialbo George Bush divenne improvvisamente un eroe popolare dopo gli attacchi dell’11 settembre, quando, facendo appello al patriottismo americano, scatenò tutta la potenza di fuoco degli Stati Uniti sull’Afghanistan, e il suo favore nei sondaggi schizzò al 90%. Due anni dopo, in preparazione della guerra all’Iraq, il fervore patriottico delle signore americane crebbe a tal punto da spingerle a versare preziose bottiglie di vino francese (la Francia si ricorderà era contraria all’attacco) nelle acque del Potomac. Le guerricciole di Reagan negli anni Ottanta (invasione di Grenada e di Panama, guerre civili in Centro America), i bombardamenti di Clinton in Serbia, Kosovo e Libia (in Somalia mandò delle truppe, ma finì male) negli anni Novanta giovarono a entrambi i presidenti, contribuendo alla loro rielezione.
In tempi più recenti, anche Barack Obama, che era stato contrario alla guerra in Iraq e aveva dichiarato di volere porre fine alla guerra in Afghanistan, vide aumentare i suoi consensi quando decise di mandare laggiù altri trentamila soldati, riuscendo così a rivincere le elezioni nel 2012. Trump, nonostante il suo temperamento da uomo forte, di guerre non ne ha fatte; anzi, verso la fine del suo mandato ha negoziato con i talebani il ritiro dall’Afghanistan, realizzato poi in modo disastroso da Biden l’anno dopo. Invece di mandare i soldati a combattere all’estero, Trump ha preferito usare la mano pesante (della polizia e della guardia nazionale) contro i manifestanti che protestavano per le continue uccisioni di neri nelle città americane, e contro i disgraziati che cercavano di entrare negli Stati Uniti dal Messico.
Questa volta, però, il patriottismo sembra non funzionare. Le due guerre in corso – quella di Ucraina e quella di Gaza – sulle quali Biden ha speso molte parole gonfie di retorica e inviato centinaia di miliardi di armamenti, non gli hanno giovato granché. Al contrario, da un sondaggio effettuato dopo il micidiale assalto di Hamas del 7 ottobre, in cinque dei sei swing States (gli “Stati in bilico” che solitamente determinano l’esito delle elezioni presidenziali) gli elettori americani hanno dichiarato di preferirgli Donald Trump, un uomo che – tacendo del passato – è stato da poco condannato a pagare una multa di duecento milioni di dollari per frode finanziaria e rischia di finire in galera in tre processi penali, dove è indagato per avere attentato alla Costituzione, avere sottratto documenti top secret e avere cercato fraudolentemente di sovvertire il risultato delle precedenti elezioni.
Perché, a petto di un simile mascalzone, un uomo tutto sommato per bene come Biden, un anziano signore che, all’inizio del suo mandato, si era proposto di riportare un po’ di normalità nella vita politica, che non ha fatto grandissime cose, ma ha ridotto l’inflazione, rilanciato gli investimenti e migliorato l’economia, che si è infine sempre comportato con “decoro presidenziale” – perché un uomo simile è caduto così in basso nel giudizio della stragrande maggioranza dei suoi concittadini?
Mettiamo da parte quel 35% di sostenitori fanatici di Trump, complottisti ed estremisti di varia risma, che credono a qualsiasi cosa lui dica e che nulla, neppure le eventuali condanne, riusciranno a smuovere. E mettiamo da parte anche quel 40% di americani (in parte sovrapposti ai precedenti) che in un recente sondaggio hanno dichiarato di ritenere la violenza armata un possibile strumento di lotta politica. E gli altri? Non dovrebbero avere un po’ di buon senso e vedere che tra i due uomini, Trump e Biden, non possono esserci dubbi, almeno per un cittadino che vuole vivere in un Paese moderatamente democratico? È quello che pensano e su cui stanno scommettendo i leader democratici e i consiglieri elettorali di Biden: adesso i sondaggi vanno male, ma sono solo sondaggi, impressioni del momento sulla performance del presidente; però tra un anno, quando gli elettori saranno chiamati ad esprimersi, sapranno fare la scelta giusta, come peraltro è già avvenuto nel 2020 e nel 2022, quando la situazione non era molto diversa da oggi.
Ragionamento convincente. Eccetto che qualcosa è cambiato in questo anno e mezzo e potrebbe ancora di più cambiare. Perché i sondaggi non parlano di uno scontento generico, ma dello scontento specifico di settori cruciali dell’elettorato democratico: quelle “minoranze” che, messe insieme, fanno la differenza: gli ispanici, scontenti per le politiche sull’immigrazione; i neri che non vedono rimedi tangibili alla violenza poliziesca e al razzismo sistemico; le donne che si sono mobilitate sull’aborto e ancora aspettano la legge federale in materia, che Biden aveva promesso; i giovani cui era stata promessa la cancellazione dei debiti studenteschi e i primi due anni di college gratuiti, e anche loro aspettano.
Naturalmente, non tutto è colpa di Biden. Nel sistema americano il presidente non ha grandi poteri se non ha la maggioranza in entrambi i rami del Congresso e se ha contro di sé la Corte suprema. Le leggi che Biden voleva fare non ha potuto farle; ma ovviamente non si può chiedere ai cittadini di essere esperti di diritto costituzionale: vedono che le promesse non sono state mantenute nonostante le buone intenzioni; così lo scontento rimane e sta già producendo uno spostamento di settori tradizionalmente democratici (i neri, gli ispanici) verso il Partito repubblicano. Molti altri, sfiduciati, anche se non voteranno per Trump, probabilmente non andranno a votare, e il risultato sarà ugualmente di far perdere Biden.
E poi c’è la guerra, anzi le due guerre. Non sono servite a far guadagnare consensi al presidente, al contrario gliene hanno fatti perdere. Non è tanto la “stanchezza” nei confronti della guerra in Ucraina (dopotutto non ci sono soldati americani a morire laggiù), come in passato per altre guerre. Sono le contraddizioni della politica estera americana nelle due regioni che stanno venendo alla luce: in Europa gli Stati Uniti difendono e armano il più debole (l’Ucraina) contro l’aggressione del più forte (la Russia), mentre in Medio Oriente, dopo la doverosa condanna dell’orrenda strage perpetrata da Hamas, difendono e armano il più forte (Israele), giustificano nelle sedi internazionali la brutale repressione che da decenni esercita sul più debole (i palestinesi), e contemporaneamente invitano Israele a “moderare” la sua cruentissima vendetta contro Hamas a Gaza. Il risultato è stato di scontentare tutti: la comunità ebraica americana e quella arabo-islamica, l’ala moderata e l’ala progressista del Partito democratico, i giovani che sono a favore di uno Stato palestinese e i più anziani che mettono al primo posto la sicurezza di Israele. Insomma, un pasticcio in cui ancora una volta Biden viene visto come un uomo incapace di affermare una leadership convincente.
Le contraddizioni della posizione americana sono state evidenziate dal voto nell’Assemblea generale dell’Onu sulle risoluzioni che hanno riguardato la guerra di Ucraina e quella di Gaza. La prima, di condanna dell’aggressione russa, fu approvata con il voto di tutti i Paesi occidentali e degli altri alleati degli Stati Uniti, mentre larga parte dei Paesi del cosiddetto “Sud globale” (America latina, Africa, Indopacifico, Cina) si astennero e alcuni votarono contro. La seconda, di qualche giorno fa, per chiedere un cessate il fuoco a Gaza è stata approvata non solo da tutti i Paesi arabi e islamici, ma anche da gran parte di quello stesso Sud globale, con il voto contrario degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati.
È questa mancanza di coerenza in politica estera, oltre alle non mantenute promesse, in un sistema politico permanentemente bloccato da violente contrapposizioni che fa perdere credibilità e autorevolezza agli Stati Uniti nel mondo, spingendo gli americani verso le ricette ingannevolmente semplici di un leader populista con aspirazioni autoritarie come Trump.