Dopo un convegno anonimo su cultura e comunicazione, e alla vigilia di una manifestazione indefinita nella rappresentanza degli interessi materiali, il Pd torna a battere alla porta dell’innovazione con un disegno di legge sull’intelligenza artificiale, che dovrebbe avere come ambizione quella di parlare al popolo digitale. Una proposta annunciata da tempo, che viene ora presentata in sommi capi, rimanendo ancora un cantiere in allestimento. Proviamo così a interpretarne solo i punti nodali, diciamo le idee forza, da cui ricavare l’obiettivo e i fini di una tale mossa che, come tutte le proposte di un partito, tanto più di sinistra, dovrebbe riuscire a inquadrare bene gli amici e i nemici, facendoci intendere in quale direzione modificare l’assetto sociale.
Questa iniziativa, a sentire i promotori, si articola attorno a tre cardini: una prima parte di governance, una seconda più mirata alla sostenibilità dei servizi dei sistemi intelligenti, a cominciare dall’informazione, e una terza che vorrebbe essere di politica industriale, con incentivi e promozioni per le aziende nazionali. Già questa struttura ci dice di una visione parcellizzata del fenomeno che anima l’ispirazione strategica del disegno di legge: l’intelligenza artificiale è percepita come una realtà a parte, recintata, rispetto alle attività ordinarie, una specie di energia nucleare, che muta la natura del suo settore, ma non ne contamina la vita quotidiana.
Proprio la sezione sulla governance tradisce chiaramente questa visione. Nonostante sia previsto un meccanismo efficace – quale l’obbligo di una legge annuale, che possa almeno integrare e recuperare il processo di evoluzione accelerata di questo mondo che sfugge a ogni regolamentazione per la sua continua fluidità –, l’insieme delle proposte per governare il fenomeno appare del tutto inadeguato. Si prevede una pletora di organismi, come per esempio l’agenzia nazionale delle frequenze, che dovrebbe (non si capisce per quale affinità) occuparsi della regolamentazione, sia funzionale sia riguardo agli effetti di eventuali danni sanitari, delle frequenze radio, o di un’ennesima agenzia per l’intelligenza artificiale, che si aggiungerebbe all’agenzia nazionale digitale e a quella della cybersecurity per disciplinare l’evolversi del settore. Manca invece una spinta a integrare la ragnatela istituzionale, con competenze e responsabilità in questo settore. Il Cipe, il Comitato per la programmazione economica, dovrebbe avere il compito di redigere annualmente un rapporto sui processi e le modalità di automazione delle procedure industriali, cosi come la Consob fa per il mercato finanziario o l’Agcom per le esperienze di digitalizzazione degli apparati formativi. Non parliamo poi di settori strategici, come la sanità o la pubblica amministrazione.
Il buco nero che questa proposta neanche inquadra riguarda l’assoluta mancanza di meccanismi di interferenza di responsabilità pubbliche nella continua espansione e costrizione che queste tecnologie impongono alle relazioni sociali ed economiche. Un partito non può non vedere in quale direzione queste soluzioni stanno spingendo le gerarchie sociali e le configurazioni culturali e ideologiche del senso comune. Siamo, infatti, nel pieno di un tornante in cui le diverse intelligenze artificiali – e questa diversificazione è di per sé un dato che rende complicata una regolamentazione dall’alto, dalla ben nota ChatGPT a Bard di Google, alle realizzazioni di Amazon e Facebook e soprattutto al pulviscolo di infinite applicazioni realizzato dalla galassia dell’open source – stanno imboccando di slancio la via di una polverizzazione individuale di queste protesi. Così come le app, o le diverse versioni di un software, anche i meccanismi di intelligenza artificiale rapidamente si stanno combinando con ogni più diversa e ordinaria attività, da quelle professionali, o industriali, a quelle relazionali. Allora bisogna innanzitutto affermare un principio di autorità delle istituzioni pubbliche e un meccanismo di decentramento sociale nell’azione di controllo e negoziazione di ogni singola soluzione.
In pochi mesi, avremo un mercato molecolare di moltitudini di applicazioni, che trasformeranno completamente le attività artigiane o le produzioni lineari, automatizzando i segmenti discrezionali delle nostre decisioni. In questo processo – lo ha spiegato persino un testimone insospettabile come il presidente americano Biden, che nel suo ordine sull’intelligenza artificiale ha chiaramente parlato di pericoli per la democrazia e per il libero arbitrio di ognuno di noi (vedi qui) – diventa fondamentale non tanto regolamentare i prodotti digitali, che muteranno nella forma e nella struttura, quanto riordinare l’intero mondo delle attività sociali, dai settori formativi della scuola a quelli produttivi industriali e artigianali, a quelli, infine, delle attività relazionali e narrative.
La proposta del Pd invece tradisce una visione più angusta e specifica, da anni Novanta, in cui il mondo digitale era un ristretto ambito sperimentale che cominciava a muovere i primi passi nell’attualità. E dove l’innovazione era un fenomeno uniforme e unidirezionale, che di per sé stupiva il mondo, annunciando una nuova era. Ora siamo invece in una fase dove la scienza appare chiaramente un registro del potere, come scrive Kate Crawford nel suo Né intelligente né artificiale (Solferino), in cui mostra come questa potenza di calcolo, che interviene nelle nostre attività, veicoli assetti etici e concettuali che non inducono un preciso assetto sociale. Per questo non si tratta, come per la chimica fine o, appunto, l’energia nucleare, di ottimizzarne l’utilizzo, quanto di introdurre pratiche ed esperienze critiche che possano riprogrammarne l’ordine ideologico.
Paolo Zellini, uno dei nostri massimi matematici, intervenendo sulla “Lettura”, il supplemento culturale del “Corriere”, di questa settimana, scrive: “In realtà la scienza non è affatto neutrale. La scoperta scientifica viene al mondo con un alone di intrinseca credibilità, di indubbia effettività e di invincibile potenza che determina fin da principio il destino e la finalità delle sue applicazioni”. È questa finalità che deve essere contrastata e contrattata dall’intervento pubblico, che non deve incentivare la massimizzazione di queste soluzioni in quanto tali, ma supportare e facilitare una capacità di riconversione e riprogrammazione che sfrutti proprio la flessibilità e l’adattamento che questa risorsa assicura.
Stiamo parlando di politica concentrata. Di quella ambizione a cambiare il mondo rispetto al percorso tracciato dalle forze avverse, senza peraltro ridurre e rallentare quella corsa all’emancipazione dell’umanità tramite appunto l’innovazione scientifica. Una ricchezza politica che non troviamo nella proposta presentata in questi giorni dal Pd. Troviamo invece il tentativo affannoso di riparare alle più macroscopiche magagne, come la solita retorica sulle fake news o l’obbligo, dopo anni che veniva richiesto agli organismi competenti, di rendere visibile l’origine, umana o robotizzata, dei contenuti che scorrono in rete.
Ma il nodo politico rimane quello di rispondere al decentramento sociale di questa tecnica: come rendere il tessuto professionale e produttivo in grado di adottare questa potenza senza importarne i principi prescrittivi. Ancora Zellini, in questi tempi di guerre, ricorda che “l’uso della bomba nucleare rimane oggi il massimo pericolo latente, insito in ogni tipo di conflitto. Ma anche la matematica condiziona non poco le nostre vite a causa delle deformazioni sistemiche indotte dalle sue applicazioni in ogni aspetto della nostra vita”. Un partito del Ventunesimo secolo dev’essere motore e rappresentante proprio di questa tensione fra matematica e interessi sociali, non limitarsi a fotografarne le dinamiche ottimali.