In via D’Amelio non potevano esserci i catanesi, Maurizio Avola e Aldo Ercolano. Questo avevano sempre sostenuto i magistrati di Caltanissetta nelle indagini sulle rivelazioni del killer Maurizio Avola, riportate nel libro di Michele Santoro Nient’altro che la verità, verbalizzate il 31 gennaio del 2020 dalla procura nissena. Convinti i magistrati, i giornalisti, i politici – quelli della “cupola” degli ultras dell’antimafia – che le indagini collegate di Firenze, Reggio Calabria e Caltanissetta avrebbero portato a individuare in esponenti dell’eversione nera e della massoneria, gli stragisti senza volto che parteciparono all’attacco eversivo dei corleonesi contro lo Stato democratico. Chi dissentiva da questo teorema veniva bandito, “silenziato”. E in alcuni casi (come in quelli del sottoscritto e di Michele Santoro) pedinati e intercettati per diversi mesi.
Ma lo scenario è cambiato con l’ordinanza del 20 ottobre scorso del gup di Caltanissetta, Santi Bologna (vedi qui), che ha chiesto alla procura di verificare le rivelazioni di Avola (finora la procura aveva solo cercato di trovare le prove del depistaggio del pentito catanese). Scrive il gup nisseno a proposito dell’attendibilità di Avola: “La valutazione della sua credibilità e dell’attendibilità del suo racconto debbono essere quanto più integrali possibili con i soli limiti – fisiologicamente imposti alla ricerca di elementi di riscontro (positivo o negativo) – dell’essere trascorsi quasi trentadue anni dal 19 luglio del 1992, senza che le ricostruzioni giudiziarie sinora operate abbiano potuto ricostruire compiutamente la fase dell’imbottitura e del collocamento della Fiat 126 sul luogo dell’esplosione, né l’identità di tutti i soggetti del commando che agì in via D’Amelio, né chi ebbe materialmente ad azionare il congegno di detonazione dell’ordigno (e da dove)”.
Insomma, dopo trenta e più anni un giudice prende atto che, in tutto questo arco di tempo, inquirenti e investigatori non sono riusciti a colmare i buchi neri della ricostruzione processuale della strage in cui persero la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. Dunque il gup Bologna invita gli inquirenti a indagare senza filtri e pregiudizi. Gli investigatori devono scandagliare la pista americana (vedi qui) e trovare riscontri al racconto di Avola.
Partiamo dall’omicidio di Antonino Scopelliti, sostituto procuratore generale della Cassazione, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa in Cassazione nel maxiprocesso alla cupola palermitana di Cosa nostra, ucciso il 9 agosto del 1991 a Campo calabro, alle porte di Reggio Calabria. Questo omicidio era un messaggio rivolto da Totò Riina a Giovanni Falcone, un “ultimo avviso”, per evitare a tutti i costi le condanne all’ergastolo irrogate nei confronti dello stesso Riina e degli altri capi mafiosi, grazie alle dichiarazioni di Tommaso Buscetta. Scopelliti fu ucciso da un gruppo di killer catanesi e trapanesi, che comprendeva il figlio di Nitto Santapaola, Enzo, e il vice-rappresentante della famiglia mafiosa di Cosa nostra catanese, Aldo Ercolano. Nel gruppo dei siciliani in trasferta in Calabria c’era anche il trapanese Matteo Messina Denaro.
L’omicidio Scopelliti inaugura la stagione stragista di Cosa nostra. È incontestabile che Nitto Santapaola, capo della famiglia catanese, sia stato condannato all’ergastolo per le stragi di Capaci e via D’Amelio. E poco importa che il boss, così come Marcello D’Agata, il consigliere della famiglia mafiosa di Catania, non fossero convinti della utilità di quell’attacco allo Stato. Le regole dei corleonesi costringevano tutti a eseguire gli ordini di Riina, anche se nel territorio in cui esercitava il suo controllo Nitto Santapaola riuscì a far rispettare la sua strategia moderata. I catanesi non c’entrano con le stragi? Di certo è provata la presenza dell’artificiere che preparò l’esplosione di Capaci. Era Pietro Rampulla, facente parte della famiglia di Caltagirone (Catania), il quale – come riconosciuto nella sentenza di condanna di Nitto Santapaola – non poteva partecipare senza il consenso e l’autorizzazione di quest’ultimo.
Il gup Bologna amplifica la contraddizione emersa negli atti dell’inchiesta. Da un lato, la difesa di Avola, che ha depositato l’informativa della Dia di Firenze che conferma il sopralluogo fiorentino prima della strage di Capaci, da parte di Maurizio Avola, il quale doveva individuare i beni artistico-culturali da danneggiare con un’autobomba. Dall’altro, la Dia di Caltanissetta, che invece sostiene di non avere trovato le prove della presenza di Avola a Firenze, prima di Capaci. Soprattutto il gup chiede alla procura nissena di acquisire tutte le intercettazioni ambientali e telefoniche del covo di via Ughetti, a Palermo, dove erano ospitati alcuni latitanti, esecutori della strage di Capaci. In queste intercettazioni (del febbraio e del marzo del 1993) ci sono le prove che confermano il coinvolgimento operativo dei catanesi nelle stragi. Antonino Gioè, morto suicida in carcere a fine luglio 1993, immediatamente dopo gli attentati di Milano e Roma, aveva seguito infatti le fasi operative dell’intera strategia stragista direttamente agli ordini di Salvatore Riina, e ciò fino alla data del suo arresto, avvenuto nel marzo del 1993, eseguito da chi lo intercettava per evitare che fossero realizzati alcuni attentati già pianificati, così come risulta dalle conversazioni intercettate in via Ughetti, tra Gioè, Gioacchino La Barbera e altri personaggi fidati.
Dopo l’arresto di Riina, il 15 gennaio 1993, sia La Barbera sia Gioè, che non erano ricercati (e La Barbera non aveva neppure precedenti giudiziari), cominciarono a essere pedinati perché indicati dall’allora neopentito, Giuseppe Marchese, come possibili soggetti a conoscenza della strage di Capaci. E in effetti, dalle loro conversazioni intercettate nella mansarda di via Ughetti, si è squarciata la verità sulla strage: per la prima volta gli investigatori sentirono parlare dell’“attentatuni”. Dalla viva voce di Antonino Gioè, sono emersi, sin dal febbraio del 1993, i collegamenti tra mafiosi catanesi e palermitani nell’esecuzione della strategia stragista. A ciò fa esplicito riferimento un alto dirigente della Dia che svolse personalmente le indagini su Gioè e La Barbera, oltre che sulle intercettazioni captate in via Ughetti a Palermo.
Il 17 luglio 1996, a Catania, dove si celebrava il processo “Orsa maggiore”, depose il dirigente della Dia, Tuccio Pappalardo: “Al momento dell’arresto, il Gioè venne trovato in possesso di un cellulare intestato alla sorella Anna. Dagli sviluppi dei tabulati di questo cellulare vennero fuori contatti tra il Gioè e l’Aiello Vincenzo (vice di Eugenio Galea, il soggetto di Cosa nostra catanese che teneva direttamente i contatti con i responsabili delle altre province mafiose negli anni 1990-1994, ndr) anche attraverso la intermediazione, facilmente deducibile dai contatti telefonici, tra il Gioè stesso e tale Menichetti Riccardo, a propria volta in contatto con l’Aiello Vincenzo”. Il questore Pappalardo ricorda in particolare un’intercettazione ambientale di Antonino Gioè che parla con Vito Randazzo, all’epoca latitante: “Il Randazzo abitava nello stesso stabile di via Ughetti, al secondo piano. Nel corso della intercettazione ambientale, si fece cenno in maniera chiara a un appuntamento che la sera stessa, rispetto al mattino in cui la intercettazione fu registrata, avrebbe dovuto esserci ad Acireale tra il Gioè, Santapaola Benedetto e Pulvirenti Giuseppe e poi un riferimento esplicito ai giovani catanesi specialisti in attentati che vengono definiti per qualità eccellenti operative, dei killer efficienti come i terroristi e i fedayn dal Gioè Antonino. Oltre a questo non c’è nulla”.