A volte le vacanze producono mostri. La passeggiata in Albania di Giorgia Meloni l’estate scorsa, con la visita al collega Edi Rama, ha gettato le prime basi dell’accordo del 6 novembre sulla deportazione in territorio albanese (“ridislocamento” è l’eufemismo ufficiale) dei migranti salvati in mare da navi italiane. L’accordo, firmato nei giorni scorsi dalla presidenza del Consiglio, prevede la sistemazione in due centri da realizzarsi in terra albanese – capacità complessiva tremila posti, apertura prevista primavera 2024 – di una parte dei migranti recuperati in mare (Palazzo Chigi parla di potenziali trentaseimila posti l’anno, ma l’ulteriore capienza dipenderà dalla rapidità con cui saranno vagliate le richieste di asilo). Il trasferimento in Albania non riguarderà i minori, le donne in gravidanza e i vulnerabili.
A sentire lo stesso Rama, si tratta di un gesto amicale del tutto gratuito, senza contropartite, anche se la cosa appare poco verosimile. Da anni l’Unione europea discute se le procedure di vaglio ed eventuale accettazione delle domande di asilo possano essere svolte in Paesi terzi, come il Ruanda o la Tunisia. Si è parlato a più riprese anche dell’Albania come possibile candidato. Finora Rama aveva rifiutato categoricamente di accettare l’installazione nel Paese di simili centri di accoglienza. In un’intervista rilasciata al tabloid tedesco “Bild”, nel 2018, aveva affermato che le persone non sono “rifiuti tossici” che possono essere scaricati ovunque: “Non accetteremo mai questi campi profughi dell’Unione europea”, aveva detto Rama all’epoca. Da qualche giorno è tornato sui suoi passi, e pare proprio che voglia fare un’eccezione per l’Italia (il più importante partner commerciale dell’Albania).
Il piano annunciato congiuntamente dai due premier ha perciò rappresentato una sorpresa tanto per l’opinione pubblica albanese e italiana, quanto per la Commissione europea, che non è stata minimamente coinvolta. L’accordo, che dovrà comunque essere ratificato dal parlamento italiano, verrà esaminato dalla Commissione europea: “Siamo a conoscenza dell’accordo – ha dichiarato asciuttamente una portavoce –, siamo stati informati ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate. Comprendiamo che questo accordo operativo dovrà ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato”. E ha sottolineato: “È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale”.
Gli accordi italo-albanesi sembrano ricalcare da vicino, su scala più modesta e approssimativa, il progetto inglese, che prevedeva il trasferimento in Ruanda di chi giungeva nel Regno Unito. Il progetto di “esternalizzazione delle domande d’asilo” in Ruanda era scaturito dalla mente fertile di Suella Braverman, creativa ministra degli Interni, cui si deve anche l’ideazione delle chiatte-prigione per i migranti. Si è poi risolto in un nulla di fatto, dopo un pronunciamento in senso negativo della Corte d’appello inglese e dopo le perplessità espresse dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. C’era stato anche il precedente del tentativo danese, due anni fa, di “esportazione” dei migranti in Paesi terzi, e ai danesi piacevano il Ruanda e il Kosovo.
Il giudizio dell’Unhcr (l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati) su questi tentativi è stato netto: “Queste pratiche minano i diritti di coloro che cercano sicurezza e protezione. Li demonizzano, li puniscono e possono mettere a rischio le loro vite”. Molto dure anche le dichiarazioni di Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato, esperto di diritti umani, da decenni impegnato sul fronte dei migranti, che ha commentato così l’intesa appena raggiunta: “Un accordo disumano, impraticabile, confuso e privo di basi legali. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, né su come avverranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione ‘sotto giurisdizione italiana’”. E ha insistito sul fatto che “fin dal momento dell’arrivo in Albania i migranti, già ritenuti comunque ‘illegali’, saranno totalmente privati della libertà personale […], qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? Alla fine, a pagare il conto di tanta disumanità, ci saranno persone in fuga, migranti forzati, rigettati da una frontiera a un’altra”.
In effetti, gli accordi appaiono un mostro giuridico con una funzione prettamente propagandistica. Nell’incapacità di sviluppare una politica migratoria degna del nome, il governo sceglie di smistare i migranti in una succursale estera. Dopo il fallimento delle trattative con la Tunisia e le fumisterie del Piano Mattei per l’Africa (vedi qui), ecco che dal cilindro della prestigiatrice a capo del governo esce il coniglio albanese. Con il plauso di Forza Italia, ormai allo sbando, e con poche voci contrarie che si levano dall’opposizione. Per una sorta di ironia della storia, sono proprio gli albanesi che ci avevano “invaso” nel 1990, e che rispedimmo a casa con un astuto stratagemma, a rappresentare l’ultima spiaggia dell’apparentemente insolubile problema della gestione dei flussi migratori verso l’Italia. Il temuto, barbarico albanese di un tempo diviene oggi il fido e civile collaboratore nel “contenimento” dei flussi.
Due sono in ogni caso le questioni che emergono con sempre più chiarezza: il fallimento di una politica migratoria unitaria dell’Unione europea – non è escluso che una delle finalità degli accordi sia quella di esercitare una pressione su Bruxelles – e l’ambiguità del concetto di “Paese terzo sicuro”, che non compare nella Convenzione di Ginevra del 1951 su rifugiati e profughi, e che si sta mostrando uno strumento per risolvere la questione migratoria lontano dai confini nazionali mediante un trasferimento rapido dei rifugiati, aggirando l’articolo 33 della Convenzione, che prevede il principio di non-refoulement e vieta categoricamente il respingimento dell’asilante verso “i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate”.
Tra l’altro, i sostenitori della teoria dello “spostiamoli altrove” si moltiplicano, e stanno uscendo allo scoperto. Il ministro degli interni austriaco Gerhard Karner, approfittando di una visita a Vienna della sua omologa britannica, Suella Braverman, ha annunciato “una nuova era di cooperazione nei settori della sicurezza e della politica migratoria tra Austria e Regno Unito”. I due Paesi hanno firmato un accordo per “combattere la criminalità transfrontaliera, il traffico degli esseri umani e l’abuso della pratica d’asilo”. Segno evidente che l’intolleranza verso gli immigrati cresce e si diffonde, soprattutto dove vi è l’influenza dei governi più conservatori, o marcatamente di destra, che hanno ormai individuato nell’intransigenza e nei proclami, che inneggiano all’allontanamento e alla rimozione, la soluzione al problema migratorio.
Il “modello Meloni”, nella sua triste banalità, potrebbe perciò riscuotere più di un consenso in un’Europa che, sotto la spinta della guerra e di una pesantissima crisi economica, slitta sempre più a destra, come hanno mostrato anche le ultime tornate elettorali amministrative in Germania. Difficile, dunque, sottrarsi all’impressione che, con la paralisi dell’iniziativa politica comunitaria sulla questione, l’estrema destra con le sue ricette semplici e brutali stia vincendo nel dibattito sull’immigrazione in Europa.