Il governo ha messo una prima stampella sotto quel fantomatico lenzuolo, bianco come il nulla, che copre da oltre un anno il Piano Mattei per l’Africa. Il Consiglio dei ministri ha varato, il 3 novembre, un decreto legge con “provvedimenti urgenti per lo sviluppo in Stati del continente africano” che descrive la governance (ma non sarebbe proibita una parola del genere?) del Piano Mattei per l’Africa. Ne fissa la durata in quattro anni, con l’obiettivo di “potenziare le iniziative di collaborazione tra Italia e Stati del continente africano, promuovere uno sviluppo economico e sociale sostenibile e duraturo di questi ultimi e prevenire le cause profonde delle migrazioni irregolari”. Il governo istituisce una “cabina di regia” presieduta dalla presidente del Consiglio, che comprende il ministro degli Esteri, altri ministri e viceministri, la conferenza delle Regioni, l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), l’Ice, la Cassa depositi e prestiti, la Sace, i rappresentanti di imprese ed enti pubblici e privati, delle università, del Terzo settore. Soprattutto crea presso Palazzo Chigi una struttura di supporto alla presidente per il coordinamento.
La prima osservazione è che si viene a creare una struttura parallela a quella dell’Agenzia per la cooperazione allo sviluppo, creata nel 2014 proprio per integrare tutte le iniziative degli attori pubblici e privati in azioni più coerenti e di maggiore impatto. La nuova struttura fa capo a Giorgia Meloni, che così si intesta questa iniziativa, come del resto va facendo dall’inizio del suo mandato, e soprattutto la scelta dei funzionari della nuova struttura.
Non è la prima volta che accade alla cooperazione internazionale. Negli anni Ottanta, Pannella e il Partito radicale promossero la campagna contro la fame nel mondo, un’iniziativa che portò nel 1985 a creare presso gli Esteri un sottosegretario ad hoc che, contrariamente alle aspettative dei radicali, venne assegnato ai socialisti. Fu stanziata una valanga di soldi, 1.900 miliardi di lire, che si dovevano spendere in diciotto mesi attraverso il Fondo aiuti italiani, e invece si trascinarono per alcuni anni tra affari di dubbio interesse. Il parallelismo tra il Fondo aiuti italiani e il Dipartimento della cooperazione allo sviluppo del ministero degli Esteri portò a un dualismo senza coordinamento, con uno spreco enorme di denaro pubblico, e soprattutto senza che la fame fosse sconfitta, come aveva previsto chi in quel settore lavorava.
Si trattò di un’operazione tutta politica, come quella attuale del Piano Mattei, con una sostanziale differenza. In attesa delle cinquanta sfumature di nero della struttura, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del decreto, i soldi per il momento non ci sono, giusto di che pagare gli stipendi della struttura, e ci si chiede a chi saranno tolte le risorse. Una prima ipotesi era stata quella del fondo clima (tre su 4,2 miliardi di euro), che però non è sopravvissuta alla legge di bilancio. Il governo saprà sicuramente trovare pensionati o qualche servizio essenziale da sacrificare, come sta facendo dall’inizio del mandato.
Per il momento si brancola nel buio. Il timore espresso da Silvia Stilli, portavoce dell’Associazione delle Ong di sviluppo (Aoi), sullo svuotamento dell’Aics, delle sue competenze e dei suoi fondi, è più che giustificato. Si tratta di un ritorno indietro della politica della cooperazione italiana, dello smantellamento di uno strumento istituzionale che semmai doveva essere rafforzato.
La Conferenza Italia-Africa, convocata per l’inizio di novembre, è stata rinviata a gennaio con la scusa della crisi mediorientale: ma era davvero pronta? Il dubbio è legittimo, poiché non c’era nulla del Piano, a parte una girandola di dichiarazioni. Meloni, il 13 ottobre scorso, in visita in Mozambico, si era spinta ad affermare che il Piano dovrà essere “scritto con l’Africa”, confermando quello che si era capito: neanche una riga del Piano Mattei è mai esistita. Ci sono “buone” intenzioni di cui è difficile prevedere i tempi di attuazione, ammesso che si trovino i soldi. A questo proposito, il richiamo alla solidarietà dell’Unione europea, dopo il fallimento dell’intesa con la Tunisia, e dopo la decisione di andare da soli a un fantomatico accordo con l’Albania per l’accoglienza dei migranti salvati in mare, rende l’intesa sempre più problematica.
Il mercato delle “buone” intenzioni del Piano è abbastanza chiaro: bloccare le migrazioni, mediante lo “sviluppo”, in cambio delle forniture di gas, per affrancarsi dalla dipendenza dalla Russia. Da un anno a questa parte, Meloni e il presidente dell’Eni, De Scalzi, visitano in tandem i Paesi africani produttori di gas, ottenendo indubbi risultati dal punto di vista delle forniture. Complicato, per non dire impossibile, ottenere l’assenso sulle politiche migratorie. La Tunisia, pure allo stremo economicamente, rifiuta i soldi dell’Unione europea per fare il guardiano delle sue frontiere. Qual è lo Stato africano, in situazione di marasma economico e politico, che vorrà assumersi la responsabilità di riprendersi indietro i propri concittadini o gli oppositori politici? Il tentativo inglese di creare campi di “accoglienza” dei migranti in Ruanda è intanto fallito. E poi la mappa dei Paesi produttori di gas e petrolio non sempre coincide con quella dei Paesi di origine dei migranti.
Per i Paesi produttori il Piano Mattei significherebbe drogare ancora di più le proprie economie con la monocoltura degli idrocarburi. La storia economica africana dimostra l’illusorietà di uno sviluppo basato sull’esportazione di questa risorsa. Gli effetti più nefasti si hanno nella distribuzione della ricchezza che accresce le disuguaglianze, con l’appropriazione delle rendite da parte di élite politico-militari e la diffusione della corruzione. L’estrazione di gas e petrolio contribuisce, inoltre, a ritardare la transizione ecologica dei Paesi produttori e dell’intero continente. La “Dichiarazione di Nairobi” dell’Unione africana sul cambiamento climatico, approvata il 6 settembre, sarebbe in totale contrasto con questa politica, ma anche quelle dei capi di Stato africani rimangono chiacchiere. In una conferenza stampa organizzata dalla Federazione delle Ong cattoliche, la scorsa settimana a Roma, alcuni ambientalisti mozambicani hanno espresso preoccupazione per l’impatto degli investimenti dell’Eni e di altre multinazionali nel loro Paese.
Un’ultima considerazione: le migrazioni hanno cause complesse. Le narrazioni degli ultimi anni hanno rappresentato, per scopi politici, semplificazioni di comodo al fine di scaricare le responsabilità sul nemico di turno: Ong, scafisti, Macron, Unione europea. Un fenomeno così epocale non può essere risolto soltanto dall’Italia e dai suoi scarsi mezzi, neppure continuando a rubare risorse ai servizi essenziali. Per il momento, la stampella c’è. Ma sotto il lenzuolo del fantasma del Piano Mattei, il nulla.