“Dottore, dottore…” Un signore chiama per parlare con il direttore Manganelli. Ha insistito molto, è uno che parla catanese e balbetta. Quasi trent’anni sono passati da quella telefonata. A chiamare il direttore del Nucleo centrale anticrimine dello Sco (Servizio centrale operativo), doveva essere un confidente importante. Secondo il racconto del killer pentito di Cosa nostra catanese, Maurizio Avola, non poteva che essere il consigliere della famiglia, Marcello D’Agata, che all’epoca non era ricercato per reati di mafia. Antonio Manganelli (che oggi non c’è più) era riuscito a costruirsi dei rapporti confidenziali con una fonte di primo livello, e, se altre stragi e omicidi eccellenti sono stati evitati, lo dobbiamo anche a questi rapporti.
Erano anni cruciali, quelli, che vedevano i corleonesi sferrare un attacco terroristico contro uomini e istituzioni della Repubblica. E gli avvenimenti che si susseguirono, nel 1992, svelati da Avola – dalla cattura di Nitto Santapaola agli omicidi sventati, ancorché programmati, dell’ex ministro della Difesa, Salvo Andò, fino a quello dell’ex pm di “mani pulite”, Antonio Di Pietro, e persino quello del governatore dello Stato di New York, l’italoamericano Mario Cuomo –, li dobbiamo a questo confidente del direttore della Divisione operativa dello Sco, Antonio Manganelli. E probabilmente non solo quelli del 1992. Era infatti il 12 agosto del 1993, tre settimane dopo le ultime bombe a Roma e Milano, quando Antonio Manganelli trasmise una informativa alle procure della Repubblica di Roma, Firenze, Milano e Palermo. “Nel corso di riservata attività informativa, questo Servizio centrale operativo ha raccolto informazioni fiduciarie che costituiscono l’oggetto e la ragione stessa della presente informativa”. Manganelli rivela di avere una buona fonte investigativa in grado di rappresentare lo scenario delle stragi, il movente e le finalità della offensiva stragista.
Il 12 agosto gli investigatori, gli inquirenti, gli apparati di prevenzione e di repressione dello Stato ancora non sapevano nulla sulle stragi sul continente. Le valutazioni e le analisi di questa informativa, a leggerle oggi, appaiono scontate. Ma allora rappresentarono davvero una svolta, aprirono scenari inediti. E questo lo dobbiamo alla fonte coltivata da un ottimo investigatore, Antonio Manganelli: il confidente Marcello D’Agata, appunto.
L’informativa dello Sco parte dalle stragi Falcone e Borsellino. “Le stragi di Capaci e di via D’Amelio sono state la più evidente espressione della strategia di attacco frontale alle istituzioni pianificata ed eseguita dall’organizzazione mafiosa denominata Cosa nostra”. “L’eliminazione fisica del giudice Falcone, nel cui operato si vedevano sintetizzati lo sforzo e le capacità statuali di lotta al fenomeno mafioso, e quella del giudice Borsellino, quest’ultimo ritenuto ragionevolmente il naturale successore del primo, hanno verosimilmente costituito la risposta mafiosa alla definitiva pena sancita dalla Suprema Corte nei confronti di affiliati e ‘avvicinati’ all’organizzazione criminale e alla contestuale predisposizione da parte dello Stato di alcuni temuti strumenti di offesa, tra cui l’allettante incentivazione normativa alla dissociazione dalla mafia e alla collaborazione con la giustizia”. “La prova di forza della fazione sanguinaria al vertice di Cosa nostra ha rappresentato anche un tentativo di incrementare la propria credibilità verso gli incerti accoliti”.
Dopo le stragi palermitane, viene catturato il capo dei capi dei corleonesi, Totò Riina, e Cosa nostra trasferisce, come aveva pianificato da tempo, l’offensiva stragista ed eversiva sul continente. Nella informativa del 12 agosto del 1993, Antonio Manganelli esplicita: “I cinque attentati verificatisi nelle città di Roma, Firenze e Milano si collocherebbero in un medesimo disegno terroristico, ordito dal gruppo di ‘palermitani’, che si colloca attualmente ai vertici di Cosa nostra, e rappresenterebbero la prosecuzione della strategia ‘delle bombe’ avviata nel maggio dello scorso anno in Sicilia”.
L’informativa ipotizza che, all’interno di Cosa nostra, sia stata accantonata la “commissione interprovinciale” costituita dai rappresentanti delle province mafiose, e la gestione della organizzazione sia passata in mano “a un gruppo che, pur non costituito informalmente in seno all’organizzazione, è attualmente titolare assoluto del potere decisionale”. “All’interno della ‘provincia’ di Palermo si sarebbe realizzata una profonda spaccatura che divide i suoi esponenti di maggior spicco e potrebbe degenerare in una nuova ‘guerra di mafia’. Le acquisizioni informative confidenziali individuano proprio nella strategia stragista della fazione più agguerrita e sanguinaria del sodalizio la causa di tale spaccatura”. “Obiettivo della strategia ‘delle bombe’ sarebbe quello di giungere a una sorta di trattativa con lo Stato per la soluzione dei principali problemi che attualmente affliggono l’organizzazione: il ‘carcerario’ e il ‘pentitismo’”.
Più che il 41-bis in se stesso, l’informativa Manganelli lascia intendere che il problema fosse la sua degenerazione. “Secondo Cosa nostra palermitana, lo Stato starebbe muovendosi da qualche tempo ‘fuori dalle regole’, con trattamenti disumani in ambito penitenziario, vessazioni nei confronti dei familiari dei detenuti (interminabili viaggi per poter effettuare i colloqui, riduzione dei numeri degli stessi, umilianti ispezioni corporali e altro), eliminazione normativa delle misure di cui possono invece beneficiare gli altri detenuti (arresti domiciliari, semilibertà, eccetera), uso non sempre corretto del pentitismo”. “Con riferimento a quest’ultimo fenomeno, Cosa nostra lamenterebbe la mancanza di un esame critico delle dichiarazioni del collaborante da parte del magistrato, il quale si limiterebbe a una sommaria raccolta di elementi di riscontro, mentre il vero promotore dell’azione penale sarebbe paradossalmente lo stesso ‘pentito’, che di fatto deciderebbe chi favorire e chi no, riferendo il più delle volte solo parte della verità e condizionando quindi fortemente la verità processuale”.
In una successiva informativa (quella del 18 maggio 1994), Antonio Manganelli riassume le “importanti informazioni confidenziali” raccolte da una “autorevole fonte all’interno dell’organizzazione mafiosa”: “Gli attentati sono stati ideati ed eseguiti dall’organizzazione mafiosa Cosa nostra. Essi vanno collocati in un più ampio progetto stragista della mafia, inteso a destabilizzare lo Stato e costringerlo a ridurre la pressione esercitata soprattutto attraverso la forte valenza processuale attribuita ai collaboratori della giustizia e il rigido trattamento penitenziario riservato ai mafiosi”. “Obiettivo degli attentati è stato il patrimonio artistico culturale del nostro Paese, ad eccezione di quello eseguito a Roma in via Fauro, diretto a Maurizio Costanzo, con ulteriore fine intimidatorio nei confronti dei mezzi di informazione, che negli ultimi tempi hanno dato particolare risonanza all’azione antimafia”. “La decisione di uccidere Costanzo sarebbe stata presa contestualmente ad altra – riscontrata anche processualmente – relativa a un attacco nei confronti di esponenti della polizia penitenziaria”.
Informative antiche, che risalgono a poche settimane dalle stragi sul continente del 1993 (Firenze, Roma e Milano), eppure ancora attuali. Erano mesi terribili. A maggio e luglio del 1992 erano stati uccisi Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le rispettive scorte. Lo Stato era sotto shock, in ginocchio, e non aveva informazioni su chi e perché avesse sferrato l’attacco terroristico contro lo Stato. Tutti gli apparati investigativi e informativi cercavano notizie. A fronte di quelle oggettive minacce, il Ros dei carabinieri del colonnello Mori e del maggiore De Donno aprirono un canale di comunicazione con Cosa nostra, attraverso l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, di Corleone, condannato in primo grado a dieci anni per mafia.
Totò Riina, secondo le dichiarazioni dei pentiti, interpretò questi contatti come una trattativa, mentre il colonnello Mori giustificò questi incontri, iniziati tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio, come un tentativo di prendere tempo, per impedire altri omicidi, altre stragi. Ma il 20 dicembre del 1992 Vito Ciancimino tornò in carcere, su richiesta della procura generale di Palermo, prima del processo d’appello per mafia. Neppure un mese dopo, il 15 gennaio del 1993, Riina fu catturato dai carabinieri del colonnello Mori. Antonio Manganelli, invece, coltivò un proficuo rapporto con Marcello D’Agata, che all’epoca non era un ricercato e non era mai stato condannato per mafia.
Nel racconto di Maurizio Avola, emerge con nettezza la spaccatura interna alla Cosa nostra catanese, tra l’ala moderata rappresentata dal capo Nitto Santapaola e dal consigliere della famiglia, Marcello d’Agata, e l’ala stragista del vice-rappresentante di Cosa nostra, Aldo Ercolano, e dallo stesso Maurizio Avola, l’esecutore e l’organizzatore di almeno ottanta omicidi. Ma la spaccatura – ha spiegato Avola – non significava che i moderati Santapaola e D’Agata non eseguissero poi le indicazioni dei corleonesi. Fu il figlio di Nitto, Enzo Santapaola, per esempio, a eliminare il pubblico ministero della Cassazione, Antonino Scopelliti, che avrebbe dovuto sostenere l’accusa nella discussione dei ricorsi del maxiprocesso.
Furono i catanesi a fornire l’esperto di esplosivi, Pietro Rampulla, per la strage di Capaci. Furono i catanesi Eugenio Galea ed Enzo Aiello a mantenere i collegamenti con i rappresentanti della “super-cosa” ideata da Riina e a inviare i telecomandi per le stragi e, infine, lo stesso Avola ed Ercolano parteciparono alla strage Borsellino. I catanesi riuscirono solo a evitare che l’attività stragista fosse pianificata ed eseguita nel loro territorio di influenza. Nei suoi territori, Nitto Santapaola impose che non si uccidessero politici, uomini di Chiesa, esponenti delle forze dell’ordine e agenti della polizia penitenziaria. È un fatto, del resto, che la presenza dei catanesi fu resa più visibile e concreta quando Riina impose l’ingresso nella Cosa nostra catanese, a fine giugno del 1992, di un suo fidatissimo uomo, Santo Mazzei. È in quel periodo che Aldo Ercolano, forte dei suoi personali rapporti con Giuseppe e Filippo Graviano e con Matteo Messina Denaro, ritenne di partecipare, più direttamente, alla strategia stragista, con l’omicidio dell’ispettore capo di polizia, Giovanni Lizzio, il 27 luglio 1992, pochi giorni dopo la sua partecipazione alla strage di via D’Amelio. E ciò per soddisfare le aspettative dei corleonesi.
Proprio Avola avrebbe dovuto poi occuparsi dell’omicidio dell’ex ministro della Difesa, il socialista Salvo Andò. Quando andò a fare il sopralluogo, si accorse però che l’esponente politico aveva una scorta rafforzata. Doveva saltare in aria anche il governatore dello Stato di New York, l’italoamericano Mario Cuomo, durante una sua visita in provincia di Messina. Era un ‘favore’ chiesto dalla Cosa nostra americana ai corleonesi. Il governatore Cuomo improvvisamente rinunciò alla visita in Sicilia. Anche Antonio Di Pietro doveva morire. Per fare un favore a degli imprenditori del Nord. Scattò l’allarme, la famiglia del pm partì per l’America, e la villa di Curno (Bergamo) dove viveva la famiglia del magistrato, si trasformò in un fortino presidiato dalle forze dell’ordine.
C’era Antonio Manganelli quel giorno, quando fu catturato Nitto Santapaola. Anzi, c’erano solo i “romani” dello Sco a catturarlo. Era il 18 maggio del 1993 quando, in un casolare nelle campagne di Mazzarrone, in provincia di Catania, fu preso il rappresentante della famiglia catanese di Cosa nostra. C’è chi ricorda che – una volta catturato Santapaola, nel casolare insieme alla moglie – Manganelli chiamò la questura di Catania, invitando il capo della Mobile e il questore a partecipare alla conferenza stampa. Allora, la questura etnea era inquinata da poliziotti confidenti di Cosa nostra.