Dunque, a quanto sembra, è cominciata la battaglia all’interno della città di Gaza. E ci si domanda se gli israeliani non si siano infilati in una trappola. È difficile pensare, infatti, che quelli di Hamas non avessero previsto qualcosa del genere. Con la grande e feroce provocazione del 7 ottobre scorso, essi probabilmente non hanno inteso soltanto dimostrare che i loro miliziani (dopo avere assunto peraltro ingenti quantità di droga) potevano bucare le difese israeliane, ma anche che l’esercito di Tel Aviv può essere costretto a un lungo e drammatico impaludamento a Gaza. La risorsa strategica principale, com’è noto, sono i circa cinquecento chilometri di gallerie sotterranee. Per questo gli israeliani non vogliono in alcun modo che a Gaza arrivino quantitativi di carburante: sperano che, privi di mezzi per far funzionare i loro sistemi nel sottosuolo, quelli di Hamas vengano allo scoperto. Ma quanto tempo ci vorrà? E Israele, pur con il suo attuale governo privo di scrupoli, per quanto potrà resistere alle pressioni internazionali – quella dell’Onu, ma anche eventualmente quella degli Stati Uniti – che la spingono a porre un freno alla tragedia umanitaria che stanno creando?
Certo, il calcolo di Hamas potrebbe rivelarsi sbagliato. Soprattutto è basato su un disprezzo senza limiti nei confronti della vita umana, a cominciare da quella degli stessi palestinesi, per tacere di quella degli ostaggi di varia nazionalità di cui i miliziani si sono impadroniti. Ma le loro azioni non vanno misurate con il nostro metro illuministico occidentale, che da tempo antepone la salvaguardia della vita a qualsiasi altro obiettivo. Se uno pensa che il martirio, cioè la testimonianza portata fino all’estremo sacrificio, abbia un senso, beh, questo qualcuno se ne infischierà altamente, e sino alla fine, di portare alla morte la popolazione civile del proprio campo. È piuttosto la cosiddetta comunità internazionale, influenzata da un modo del tutto opposto di vedere le cose, che non può accettare una strage prolungata a Gaza. Ciò implica, in altre parole, che sussiste una consistente probabilità che l’esercito israeliano si sia infilato con Hamas, sul suo terreno, in un batti e ribatti pressoché interminabile e, al tempo stesso, difficilmente accettabile.
Del resto, mutatis mutandis, l’abbiamo visto anche a proposito della Russia e dell’Ucraina. Se la prima avesse conquistato Kiev rapidamente, come nei piani iniziali di Putin, rovesciando il suo legittimo governo, avrebbe vinto la partita. Ma tutto quello che è accaduto dopo – anche l’ostinazione nazionalistica da parte ucraina, per non dire della cecità occidentale al riguardo – è soltanto terribile aria fritta: morti del tutto inutili, all’interno di una insensata guerra di posizione che ricorda quella della Prima guerra mondiale. È evidente, a questo proposito, già da un anno a questa parte almeno, che si sarebbe dovuto cominciare a trattare, facendo tacere le armi, e magari mettendo i territori contesi sotto controllo internazionale.
Una situazione vagamente simile potrebbe profilarsi a Gaza. Se la guerra andrà avanti oltre un certo limite temporale, nell’impossibilità di fare fuori tutti gli abitanti della Striscia, Israele sarà costretta, forse con un altro governo, a trattare. E d’altronde chi l’ha detto che con i jihadisti non si possa e non si debba trattare? I talebani, detestabilissimi almeno quanto Hamas, per una ventina d’anni furono considerati acerrimi nemici – e poi invece con loro si trattò, addirittura riconsegnando loro il Paese senz’alcuna condizione. Si viene a patti talvolta, sia pure obtorto collo, con il diavolo in persona. Allora perché farlo dopo e non prima – a volere tener fermo il principio che quello di risparmiare vite umane è l’obiettivo prioritario?