Mentre al vertice mondiale sull’intelligenza artificiale – riunito nel mitico Bletchley Park, dove durante la Seconda guerra mondiale il team guidato da Alan Turing decifrò il codice Enigma dei nazisti – si balbetta sulle regole e condizioni da imporre ai proprietari dei sistemi digitali, a Washington va in scena una singolare svolta politica ed economica, che vede il governo americano come vendicatore di quei monopoli che lui stesso ha creato e finanziato.
Non è un semplice gioco delle parti: sta maturando qualcosa di significativo. Nel 2015, nella fase finale della seconda presidenza Obama, l’allora segretaria di Stato, Hillary Clinton, inviò una lettera molto dura e minacciosa al Senato americano, avvertendolo che la Casa Bianca intendeva proteggere le tecnologie digitali prodotte dalle aziende della Silicon Valley, perché la loro efficienza, minacciata già allora da continue intrusioni cinesi, costituiva un presidio della sicurezza del Paese. Oggi leggiamo un documento, che non a caso viene definito “un ordine del presidente degli Stati Uniti”, con il quale si separano gli interessi della superpotenza americana da quelli dei complessi industriale e tecnologico delle multinazionali con basi nel Paese.
Le due posizioni ci spiegano bene cosa sia accaduto sulla scena globale: le nuove forme di intelligenza artificiale, combinate con la pervasività dei meccanismi di automazione di professioni, lavori e attività creative, stanno squilibrando le relazioni fra economia e politica, mettendo nell’angolo persino i massimi livelli decisionali del pianeta. Proprio le due guerre in atto, in Ucraina e in Medio Oriente, mostrano come le compagnie digitali stanno giocando in proprio persino la partita geopolitica, trattando direttamente con i singoli Paesi belligeranti i propri servizi, che incidono ormai in maniera decisiva sul corso dei combattimenti.
L’ordine emanato da Biden (vedi qui) esprime una visione dei sistemi tecnologici per molti versi più avanzata e determinata perfino degli ultimi già avanzati regolamenti approvati dall’Unione europea.
Intanto, in apertura del documento la Casa Bianca fa intendere subito la novità, quando scrive:“L’uso responsabile dell’intelligenza artificiale ha il potenziale per aiutare a risolvere sfide urgenti e rendere il nostro mondo più prospero, produttivo, innovativo e sicuro. Allo stesso tempo, un uso irresponsabile potrebbe esacerbare i danni sociali quali frode, discriminazione, pregiudizi e disinformazione; spostare e privare di potere i lavoratori; soffocare la concorrenza; e pongono rischi per la sicurezza nazionale”.
Si colloca così, alla base del ragionamento, il principio che stiamo parlando di sistemi di relazioni e organizzazione sociale e non di prodotti commerciali, per cui il ruolo e la consapevolezza di utenti, consumatori e lavoratori (per la prima volta si citano i lavoratori come possibile controparte delle tecnologie digitali proprietarie), deve potersi esercitare liberamente e in maniera circostanziata. La proprietà di questi sistemi non è un titolo che sottrae i titolari da responsabilità pubbliche.
Neanche le norme europee recenti citano dettagliatamente le figure sociali, e specificatamente i lavoratori, come controparte dei proprietari di queste piattaforme. Una visione che viene ancora più ampliata dal paragrafo successivo, in cui ricorre un’espressione centrale nella concezione pubblica dell’intelligenza artificiale. Biden infatti scrive: “Alla fine, l’intelligenza artificiale riflette i principi delle persone che la costruiscono, delle persone che la utilizzano e i dati su cui è costruita”.
In questo modo, il governo americano definisce per la prima volta l’intelligenza artificiale patrimonio collettivo, bene comune, in cui utenti e proprietari hanno pari diritti in virtù dei processi sociali di addestramento che si nutrono, appunto, di un’immensa quantità di dati prodotti dalla vita dell’intera comunità. Anche qui il primato della proprietà, perfino la mitica figura dell’investitore rinascimentale, che vede il progresso e rischia di suo con il venture capital, deve cedere il passo rispetto all’interesse pubblico.
Il secondo ordine di principi sancito dal pronunciamento presidenziale riguarda la dinamica della contesa e della riprogrammazione dei sistemi. In sostanza, la loro violabilità e adattamento alle esigenze degli utenti. Il testo del presidente dice esplicitamente che “raggiungere questo obiettivo richiede valutazioni solide, affidabili, ripetibili e standardizzate dei sistemi di intelligenza artificiale, nonché politiche, istituzioni e, se appropriato, altri meccanismi per testare, comprendere e mitigare i rischi derivanti da questi sistemi prima che vengano utilizzati”. Ossia, è la stessa ricerca e prototipazione che deve vedere in azione gli stakeholders nel controllo e contrattazione del funzionamento di ogni singolo dispositivo. Nessun ente pubblico aveva ancora allungato le sue mire regolatorie fino alla fase iniziale del processo innovativo, quale è appunto la ricerca che, sempre più – sembra di capire – deve sottostare ai valori e principi etici della comunità.
Infine, si individuano materialmente i passaggi che devono essere rispettati per smantellare ogni posizione dominante e monopolistica, quando si legge che “il governo federale promuoverà un ecosistema e un mercato equi, aperti e competitivi per l’intelligenza artificiale e le tecnologie correlate, in modo che i piccoli sviluppatori e imprenditori possano continuare a guidare l’innovazione. Per fare ciò, è necessario fermare la collusione illegale e affrontare i rischi derivanti dall’uso da parte delle aziende dominanti di risorse chiave come semiconduttori, potenza di calcolo, archiviazione nel cloud e dati a svantaggio dei concorrenti, ed è necessario sostenere un mercato che sfrutti i vantaggi dell’intelligenza artificiale per offrire nuove opportunità per piccole imprese, lavoratori e imprenditori”. Si afferma così, per la prima volta con solennità e forza politica, il principio che tutti gli snodi della filiera debbono essere trasparenti, condivisi e negoziabili, a cominciare dai singoli pezzi del mosaico, come i semiconduttori e le infrastrutture di archiviazione e di cloud.
Lungo questo percorso, la cui origine e consistenza va chiaramente ancora compresa, troviamo un’idea politica che certo non coincide con il senso comune del sistema economico e istituzionale americano, ossia che il pubblico, diciamo genericamente lo Stato, non sia, nel migliore dei casi, un arbitro avveduto e non intimidito ma un vero protagonista, una parte nel conflitto in grado di rettificare e correggere i comportamenti degli altri interlocutori. Biden, infatti, nella parte finale, mette in campo un corposo modulo di interventi e di decisioni imminenti, che danno al governo centrale gli strumenti non solo per monitorare ma per competere con le grandi compagnie private, sia nel campo della ricerca applicativa sia in quello delle realizzazioni.
Siccome siamo alla viglia di un’annunciata rovente campagna elettorale, la scelta dell’attuale inquilino della Casa Bianca sembra non ammettere dubbi: identifica l’interesse del Paese – in una crisi geopolitica, ma anche geoeconomica, in cui l’Occidente si vede più isolato e criticato di anni addietro – con una svolta di keynesismo, se non vogliamo usare l’ingombrante retaggio socialdemocratico, in cui lo spazio pubblico, dove convergono gli interessi di un ceto medio competitivo e individualista ma sempre diffidente dei monopoli prevaricanti, deve oggi confrontarsi con un potere che nel campo del calcolo sta violando le regole più elementari del libero arbitrio.
Ora, proprio la scelta conflittuale che deriva dal documento presidenziale affida alle componenti sociali il ruolo di trasformare principi avanzati in pratica concreta e sedimentata. Siamo dinanzi a uno stato degli utenti dell’intelligenza artificiale che deve trovare una cultura modernamente conflittuale e partecipativa, in grado di ridisegnare le gerarchie globali, a partire proprio dal carattere distribuito e sociale di queste tecniche.