Spuntano dappertutto come funghi, e per costruirli si cambia destinazione a intere aree, come sta avvenendo a Quarto, o si utilizzano gli spazi lasciati vuoti dalla deindustrializzazione e dal contrarsi di una città che diventa sempre più piccola, dal punto di vista produttivo e demografico. È cominciato tutto più di vent’anni fa, con la costruzione del centro commerciale Fiumara tra Sampierdarena e Cornigliano, nelle aree di quello che era stato per un secolo il cuore dell’industria genovese, in una parte di città, il ponente, in cui il venire meno di una secolare vocazione industriale aveva lasciato spazi vuoti, terrains vagues spesso desertificati e inutilizzati. Spazi di una memoria storica che avrebbe potuto ben diversamente essere valorizzata e preservata, se si fosse voluto salvaguardare la storia umana e sociale di un luogo, seguendone le modificazioni nel tempo, guardando allo sfaldarsi e al ricostruirsi delle identità.
La scelta fu invece quella di distruggere quanto rimaneva di quella eredità e di edificare un grande centro commerciale all’americana. È triste ricordare che fu un’operazione di cui fu responsabile una giunta di sinistra. Ma l’accelerazione è venuta negli ultimi anni, con l’amministrazione Bucci. Il “sindaco del fare” non ha lesinato concessioni, e oggi pare che la trasformazione in supermercati e centri commerciali rappresenti un destino ineluttabile per tutti gli spazi dismessi, di cui la scarsa fantasia della giunta comunale genovese non sa bene cosa fare.
Così la città si è riempita di una serie di luoghi del consumo, che costituiscono ormai una sorta di continuum ininterrotto, fino a formare, come ha notato con ironia Claudio Paglieri, sulle pagine del “Secolo XIX” del 30 ottobre, una sorta di squallida promenade commerciale, che parte dalla zona portuale, passando per il ristrutturando waterfront della Foce, per arrivare fino a Nervi. In realtà, se si considera anche il ponente, il numero dei nuovi supermercati costruiti o in costruzione cresce ancora: è di qualche giorno fa la notizia del via al progetto esecutivo della gigantesca Coop, che sorgerà sulla vecchia area industriale della Esaote di Sestri Ponente.
In città ha destato clamore e polemica anche la vicenda dell’ex mercato del pesce, un edificio dalla grande valenza simbolica e immaginativa, di cui abbiamo già parlato (vedi qui), anch’esso svilito in modeste attività di tipo commerciale; e molto discussa è ora la realizzazione di un ulteriore supermercato nell’area della rotonda di Carignano, in cui, tra l’altro, i primi scavi hanno portato alla luce resti archeologici di un certo interesse. Un appello perché questi resti vengano preservati, e si pensi a un diverso destino della zona, è stato lanciato da intellettuali e forze dell’associazionismo. È stato menzionato un precedente interessante: i giardini Luzzati, in pieno centro antico, un sito in cui avrebbe dovuto sorgere l’ennesimo parcheggio; ma con la scoperta, durante i lavori, di un anfiteatro di epoca romana, dopo una vasta mobilitazione, è stata realizzata una realtà protetta di tipo monumentale e ricreativo. Una realtà che, negli anni, ha mostrato di funzionare molto bene, sia sotto il profilo della offerta di socialità sia come elemento di attrazione turistica.
Al di là di questi contestati casi, il problema di fondo rimane comunque quello di una valutazione più generale di cosa comporti per una città la proliferazione dei supermercati e dei centri commerciali, che sono molto più che semplici luoghi di acquisto. Assumono spesso le funzioni dello spazio pubblico, ma lo riorganizzano in modo diverso e spesso problematico. Producono ambiti che possono essere utilizzati dal pubblico, ma non sono di proprietà pubblica, e sono depurati dall’urbanità, intesa come libero incontro, e dalla promessa di dimensione pubblica e di democrazia che alla città è strettamente legata. Sono infatti orientati esclusivamente al consumo e alle esigenze dei consumatori, e cancellano tutta l’eterogeneità sociale, la casualità e l’ambiguità che sono al centro della vita quotidiana urbana, attraverso il controllo costante e l’ottimizzazione da parte di una gestione centrale.
In molti hanno perciò sostenuto che la loro eccessiva diffusione costituisca, sotto molti aspetti, una minaccia per il concetto classico di città europea e per il concetto di spazio pubblico a esso associato. Non sono solo le fasce finanziariamente deboli della popolazione e coloro che – come i giovani troppo rumorosi o i senzatetto – sono percepiti come un fastidio a non trovarvi posto. L’esclusione di una parte dei cittadini e del diritto di parola è anche molto più facile da attuare attraverso il diritto privato che regola i centri commerciali, anziché nello spazio pubblico delle città. I centri commerciali sono stati quindi visti non solo come l’antitesi di una città sociale, ma anche come una limitazione per una città che voglia avere realmente una vita pubblica e democratica. Diceva un critico feroce del modello, il situazionista Guy Debord, che l’affermarsi del supermercato comporta una sorta di dissoluzione, di “vaporizzazione” del tessuto urbano, che si riorganizza in funzione di queste nuove strutture. E si è parlato a lungo anche di “colonizzazione del quotidiano”, di un “autodivorarsi delle città”. Certo, non sono mancate letture in senso opposto, come le esaltazioni postmoderniste dello spazio semi-pubblico dei centri commerciali, letto in chiave di potenziale, disincantata “nuova agorà”, addirittura sostitutiva della piazza tradizionale, che sarebbe divenuta poco praticata e obsoleta nella sua concezione.
Naturalmente tutte queste riflessioni vanno calate nell’ambito della città e della zona in cui queste realtà commerciali vengono collocate. È fondamentale, nel valutarne l’impatto, la loro struttura e dimensione, la maggiore o minore “apertura” a tutto quanto le circonda. Sono queste le caratteristiche che decidono, in ultima istanza, della loro capacità di integrarsi nel tessuto urbano e sociale più complessivo. E a Genova decisamente si è andati fuori misura, “il troppo stroppia”, come recita il vecchio motto; e sarebbe ora, a fronte di una troppo lunga mala gestione, di avviare un dibattito su che cosa fare del patrimonio culturale e ambientale genovese, così importante e spesso così negletto, evitando di continuare a trasformare preesistenze importanti e architettonicamente significative in una sfilata di edifici anonimi e senza storia, nati in maniera casuale al di fuori di un progetto di città dotato di qualche significato.