Le affermazioni dell’ex ambasciatore israeliano in Italia, Dror Eydar, secondo cui per il suo Paese “c’è un unico scopo: distruggere Gaza, distruggere questo male assoluto”, hanno un merito: eliminano ogni ipocrisia. L’ipocrisia sta nelle posizioni di chi, come il presidente americano Biden, sostiene il diritto di Israele di intervenire a Gaza con tutti i mezzi a disposizione, ma chiede di “rispettare il diritto umanitario”. Infatti, è chiaro che per Israele l’unico modo per sconfiggere Hamas è eliminarla fisicamente: ma, dato che all’interno della popolazione di Gaza, è praticamente impossibile distinguere tra chi è un miliziano di Hamas e un semplice cittadino, non si possono fare differenze; se poi in queste operazioni perde la vita anche qualche bambino, si tratta di “danni collaterali” inevitabili.
D’altra parte, è altrettanto chiaro che per gli stessi miliziani di Hamas non c’è assolutamente differenza tra uccidere militari e uccidere semplici cittadini israeliani, anche bambini, talvolta nel modo più efferato. Le due posizioni appaiono quindi simmetricamente equivalenti: che poi le si possa definire entrambe “genocidio” oppure no, è una questione da lasciare agli esperti di diritto internazionale. Allo stesso modo, non vale la pena di soffermarsi qui sulle ragioni e sui torti da una parte e dall’altra, che impongono a chiunque non voglia accontentarsi di slogan di approfondire le cause, remote e prossime, di questa tragedia; e diversi interventi già apparsi su “terzogiornale” forniscono un contributo in questo senso (vedi qui e qui).
Ciò su cui bisogna riflettere, dunque, sono i possibili sviluppi futuri di ciò che sta accadendo in Medio Oriente. E in proposito non si può che partire da una constatazione: finora Hamas ha vinto su tutta la linea, non sul piano militare, ovviamente, ma su quello politico. Molti dei suoi scopi, infatti, sono stati realizzati: a) mettere nuovamente in crisi i rapporti di “coesistenza pacifica” tra Israele e i Paesi arabi, tanto quelli già stabiliti da tempo (con l’Egitto e con la Giordania), quanto quelli in via di formazione (come con l’Arabia saudita e le varie monarchie del Golfo, grazie ai cosiddetti “accordi di Abramo”); in queste condizioni, nessuno di questi Paesi può non appoggiare – se non nei fatti almeno a parole – la causa palestinese, che invece, negli ultimi anni, avevano progressivamente trascurato; b) aumentare il peso di Hamas in Cisgiordania, dove quello dell’Autorità nazionale palestinese è ormai ridotto al minimo; l’arroganza dei coloni israeliani, aizzata dalle stragi del 7 ottobre e spalleggiata, ora più che mai, dall’esercito, trova una resistenza sempre più dura da parte della popolazione palestinese; c) ciò rende ormai totalmente irrealistico (posto che sia mai stato realistico) il programma “due popoli, due Stati”. È chiaro che un tale programma è del tutto antitetico agli scopi dei coloni israeliani, e anche di Netanyahu e dei suoi sostenitori, come pure agli scopi di Hamas, che esplicitamente si batte per la cancellazione dello Stato di Israele.
Certamente, non tutti gli israeliani sono dalla parte di Netanyahu, come non tutti i palestinesi sono militanti di Hamas, ma non si può trascurare il fatto che Netanyahu si avvia a diventare il più longevo primo ministro di Israele dopo Ben Gurion, e che Hamas aveva vinto le ultime elezioni nei territori palestinesi (vittoria poi boicottata dall’Occidente, che ha preferito lasciare al suo posto lo sconfitto Abu Mazen, che da allora elezioni non ne ha più indette). E, ancora una volta, gli ultimi avvenimenti non possono che radicalizzare le posizioni, tanto in un campo che in quello avverso. Anche gli israeliani più sinceramente fautori, prima del 7 ottobre, di un dialogo con i palestinesi sono mossi da un sentimento di ostilità e di rivalsa (lo testimoniano le corrispondenze di una di loro, Manuela Dviri, per “Il Fatto quotidiano”); e durissime sono le reazioni degli esponenti più moderati dell’Autorità nazionale palestinese (per quello che ne resta). Quindi, anche lo slogan “due popoli, due Stati”, pur se ripetuto, in molti casi, da persone in assoluta buona fede, è ormai di fatto ipocrita.
Questo, a mio parere, è il quadro della situazione attuale: del tutto sconfortante. Come sempre, sulla sua evoluzione, nessuno è in grado di fare previsioni, ma sembrerebbe ragionevole (oltre che proveniente da una fonte certamente competente in materia) quella di Ami Ayalon, già capo dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano, in un’intervista rilasciata al Tg3 del 29 ottobre: se il popolo palestinese si convincerà che non ha nulla da perdere, si comporterà come il personaggio biblico Sansone, cioè farà crollare la casa in cui era stato imprigionato (a Gaza, tra l’altro), al grido di “muoia io insieme ai filistei!” (Giudici, cap. 16, 30). E cosa possono perdere ora i palestinesi di Gaza, costretti a vivere sotto una tempesta continua di bombe e ridotti letteralmente alla fame? Rispetto al racconto biblico, le parti sono invertite: nella parte dell’ebreo Sansone, ci sono ora i palestinesi; chi c’è in quella dei filistei (dal cui nome deriva tra l’altro il toponimo Palestina)? Certamente gli israeliani, ma forse anche molti altri cittadini di vari Paesi del mondo, a cominciare da quelli dell’Occidente. Sarebbe quindi il caso che Stati Uniti e Unione europea, abbandonando l’ipocrisia del “rispetto del diritto umanitario”, si impegnassero concretamente per un cessate il fuoco. Naturalmente, questo non risolverebbe minimamente la questione palestinese: ma almeno eviterebbe di accrescere il rischio di essere tutti travolti, metaforicamente ma non tanto, dalle rovine di Gaza.