Il drammatico riaccendersi dello scontro tra palestinesi e israeliani (vedi qui) ha riportato a galla, con toni per forza di cose più accesi, la discussione su un conflitto che da quasi ottant’anni insanguina quel pezzo di mondo così ricco di storia e cultura. Un lasso di tempo che ha visto come vittime principali i palestinesi ancora senza patria, uccisi a migliaia e privati di ogni diritto, a fronte comunque di una popolazione israeliana costretta a guardarsi continuamente le spalle in un incubo da cui non vogliono risvegliarsi per diverse ragioni, tutte legate a una storia complessa e tragica.
Purtroppo quanto di recente accaduto – la strage di israeliani per opera di Hamas e la pesantissima ritorsione dello Stato ebraico contro Gaza, entrambi eventi senza precedenti – ha compattato quel mondo occidentale, politico e massmediatico, sempre a fianco di Tel Aviv a prescindere, costretto solo oggi a interrogarsi di fronte all’impresentabilità dell’attuale premier Benjamin Netanyahu (responsabile, tra l’altro, di non essere riuscito a impedire la strage di civili israeliani). Quest’ultimo evento ha fatto ripiombare gli ebrei di tutto il mondo nel timore di un accentuarsi dell’antisemitismo, che addirittura possa porre le basi di una nuova Shoah. Una paura accentuata anche dalla solitudine in cui si sono trovati.
E difatti se, come dicevamo, il mondo occidentale ufficiale, gli Stati Uniti e l’Unione europea, hanno espresso un’ovvia solidarietà nei confronti di Israele, e pressoché nulla hanno fatto in passato per frenare l’annientamento del popolo di Gaza, d’altro canto le piazze si sono mobilitate poco per esprimere vicinanza agli ebrei; al contrario di quanto successo nei Paesi arabi e islamici, dove è stata invece manifestata un’accesa solidarietà ai palestinesi. Anche le piazze europee – riempite dagli arabi che vivono nel nostro continente, come pure da militanti di partiti e associazioni – hanno lanciato, sia pure solo in qualche caso, slogan imbarazzanti.
Ciò può ridare fiato a quell’antisemitismo sempre presente o latente in Occidente? Non c’è dubbio. Come diceva la filosofa Hannah Arendt, “dall’antisemitismo non si è al sicuro che sulla luna”. Il che non significa che un nuovo Olocausto si stia profilando all’orizzonte. Anche se gli arabi farebbero volentieri a meno degli ebrei sul loro territorio, non si prevedono “soluzioni finali”. Fortunatamente, nella vecchia e malandata Europa, al momento questi rischi non si corrono; e la stessa Chiesa cattolica, che una volta puzzava di antigiudaismo lontano un miglio, non è più quella del passato. Non vorremmo che, a parte quelle persone in assoluta buona fede, il tema del ritorno ai tempi bui possa trasformarsi in una sorta di ricatto contro chi non è disposto ad accettare favolette fin troppo diffuse che vedono l’antisemitismo ovunque (al riguardo, solo per fare un esempio, ricordiamo l’accusa mossa al regista ebreo americano Steven Spielberg per il film Monaco).
C’è poi un altro nodo delicato che interessa il rapporto tra la sinistra e il conflitto israelo-palestinese. Vogliamo prendere spunto da una recente intervista che la scrittrice ebrea Lia Levi, classe 1931, scampata per un soffio alla deportazione e fondatrice del mensile “Shoah”, ha rilasciato al quotidiano “La Stampa”. Per l’intellettuale toscana, sceneggiatrice e giornalista, la sinistra, in particolare quella italiana, ha sempre odiato l’Occidente e dunque, aggiungiamo, anche Israele. Ma il tema è più complesso. Mettendo da parte alcuni ambienti estremisti, che oggi più di ieri contano poco o nulla, l’Italia socialista e comunista del passato è stata ben altra cosa. Se, da un lato, c’era da parte dei principali partiti italiani, Dc compresa, un’attenzione alle relazioni con il mondo arabo, dall’altro, i rapporti con Israele non entrarono mai in aperto conflitto, come ricordò l’ambasciatore Sergio Romano, perché la collocazione atlantica del nostro Paese era fuori discussione. Spiace dirlo, ma le affermazioni dell’autorevole scrittrice non hanno alcun riscontro nella realtà. Anzi, la sinistra di oggi – degli ultimi venti o trent’anni per essere più precisi, e in particolare il Pd – si è sostanzialmente dimenticata della questione palestinese, prendendo anche come scusa l’impossibilità di dialogare con Hamas. Nodo certo non trascurabile, ma che non giustifica l’oblio in cui sono caduti i palestinesi, i quali non coincidono affatto con il gruppo fondamentalista.
Nel nostro Paese siamo costretti, in questi giorni, ad assistere a una situazione paradossale. Una destra che affonda le proprie radici in quel neofascismo non certo attento ai diritti degli ebrei – basti ricordare un sodale di Giorgia Meloni brindare alla “birreria di Monaco”, triste luogo di ritrovo dei nazisti – ha accusato l’opposizione di simpatie per gli estremisti islamici solo perché favorevole a inviare beni di prima necessità alla popolazione di Gaza. Questo maccartismo 2.0, che va ben al di là dei nostri confini, non ha risparmiato intellettuali di vario genere. Come Patrick Zaki, giovane egiziano già incarcerato nelle prigioni di al-Sisi, le cui parole di solidarietà nei confronti dei palestinesi sono bastate per far slittare la sua partecipazione alla trasmissione televisiva “Che tempo che fa” fino a un niet da parte del Sermig, che aveva messo a disposizione l’Arsenale della Pace di Torino per la presentazione dell’autobiografia del giovane, Sogni e illusioni di libertà. Vicenda simile in Germania, dov’è stato cancellato il conferimento del premio LiBeraturpreis, durante la Fiera di Francoforte, al libro Un dettaglio minore della scrittrice palestinese Adania Shibli. E la lista potrebbe continuare.
Altro elemento di forte criticità, emerso in questi giorni, è la libertà di opinione nella carta stampata, e non solo. È sotto gli occhi di tutti che le forti denunce mosse dalla stampa democratica israeliana (vedi le accuse della prestigiosa testata “Haaretz” nei confronti dell’attuale governo) non hanno diritto di cittadinanza da noi, o quanto meno sono spesso oggetto di attacchi inaccettabili. In questo caso, esprime bene il concetto Lia Levi: “Possiamo parlarne male noi (di Israele, ndr), ma se lo fa qualcun altro subito ci accendiamo”. È evidente che questo approccio è fuori da ogni logica politica e umana, e l’obiettivo degli israeliani e delle israeliane deve essere quello di avere una volta per tutte uno Stato come gli altri, che accetti di convivere sulla stessa terra con un altro popolo e di rispettarne i diritti. Ma, avendo toccato il fondo, per risalire la china bisognerà aspettare forse decenni, durante i quali non potrà che scorrere altro sangue – sperando ovviamente di essere smentiti.