Era cominciata alla grande, con il discorso di insediamento alla Camera, per il primo voto di fiducia, nel quale Giorgia Meloni si era posta, senza falsa modestia, nella scia delle grandi connazionali, da Maria Montessori a Samantha Cristoforetti, passando per Nilde Iotti, Rita Levi Montalcini, Oriana Fallaci e tante altre che hanno “dimostrato il valore delle donne italiane, come spero di riuscire a fare anche io”. A un anno esatto da quel giorno, appare quantomeno prematuro immaginare la collocazione della presidente del Consiglio in quel pantheon al femminile (tricolore).
Oggi si può senz’altro dire che si inizia a intravedere qualche crepa nella narrazione del travolgente successo politico dell’erede di Giorgio Almirante e Gianfranco Fini. Parliamo di piccoli segnali, certo, che tuttavia si estendono dal piano virtuale (quello dei sondaggi) al piano reale (quello dei voti in qualche consultazione amministrativa), fino a quello delle note stonate nel concerto di una maggioranza di destra-centro che inizia a mostrare piuttosto spesso le sue difficoltà interne. Di certo, c’è che se un anno fa aveva potuto indicare nei governi tecnici e nelle alleanze postelettorali occasionali la causa principale del crescente astensionismo, oggi nemmeno fra i suoi sostenitori più accaniti si trova chi è pronto a giurare che il governo Meloni abbia aperto una stagione di rinnovato entusiasmo degli italiani per la democrazia e i suoi riti: per dire, più di otto elettori su dieci si sono astenuti nelle suppletive per il seggio senatoriale lasciato vacante da Silvio Berlusconi.
I segnali di cui parliamo – è bene precisarlo – sono contraddittori, a partire da quelli dei sondaggi di opinione. Da un lato, le intenzioni di voto, nelle più recenti rilevazioni rese note da La7 (Swg) e Rai1-Porta a Porta (Euromedia Research), concordano nell’indicare la stabilità del primato di Fratelli d’Italia, al 28,7% nel primo caso e al 29% nel secondo; dall’altro, secondo l’istituto demografico triestino – considerato in genere il più vicino al centrosinistra – c’è da registrare il tonfo nel gradimento degli elettori nei confronti del governo presieduto da Meloni: in un anno, dal 49 al 34%. Solo il Conte 1 riuscì a fare peggio, nel recente passato, precipitando dal 51 al 32% nell’apprezzamento. Il Conte 2 andò in crescita, dal 27 al 47%; Draghi dal 45 al 53%, dopo un anno di permanenza a palazzo Chigi; il grigio Gentiloni, fedele alla sua tonalità cromatica, passò dal 25 al 24%: non piacendo un granché fin dall’inizio, non poté deludere quasi nessuno.
Sempre nel campo dei piccoli segnali, da prendere con le molle per le differenze fra tipologie diverse di elezioni, si può prendere a esempio il passaggio, nella città di Foggia, dal 18,9%, nelle politiche dello scorso anno, all’11,3% incassato da Fratelli d’Italia alle comunali di domenica 22 ottobre. Oppure il calo nelle recentissime provinciali sia in Alto Adige (il 6%, 19,9 a Bolzano città, l’anno prima, alle politiche, erano rispettivamente il 18,8% sull’intera provincia e il 22,5 nel solo capoluogo) sia in Trentino (nel capoluogo al 12,22%, dal 20,2 ottenuto lo scorso anno).
Oggi, in parlamento, Giorgia Meloni giura che il suo governo ha una “credibilità” figlia della “fiducia degli italiani che sentiamo forte alle nostre spalle” e del “sostegno di una maggioranza politica compatta figlia di quella fiducia”. Agli avversari manda a dire “fatevene una ragione”, ma non è escluso che i destinatari del messaggio si annidino anche fra i banchi della sua maggioranza. Le ultime settimane sono state piuttosto tese, con l’esposizione nella tv berlusconiana delle vicende private della presidente del Consiglio; e non è un caso che, su diversi dossier – dalla prescrizione alla nomina di Giuliano Amato alla presidenza della commissione editoria sull’intelligenza artificiale –, si sia registrato un sensibile rialzo delle tensioni sulla linea Palazzo Chigi-Forza Italia. Nei palazzi della politica, è stata notata anche la freddezza degli esponenti di Fratelli d’Italia, in genere non avari di dichiarazioni su qualsiasi argomento, ma tendenzialmente silenti dopo la vittoria di Adriano Galliani, uomo di Forza Italia, da sempre vicino alla famiglia Berlusconi, nelle elezioni suppletive a Monza.
È passato un anno, molti entusiasmi sono svaniti, ma per ora non c’è motivo di pensare che prima delle elezioni europee del giugno 2024 la poltrona di Giorgia Meloni possa essere destabilizzata in modo serio. Per ora, più che in ambito nazionale, le sue carte la leader di Fratelli d’Italia le sta giocando sul terreno della politica internazionale. Dove l’attendono, in questi giorni, non facili discussioni con i partner europei sulla riforma delle regole di bilancio, l’unione bancaria e la ratifica della riforma del Mes: tema non facile da affrontare per una maggioranza che conserva sotto traccia molte posizioni di critica e diffidenza verso le istituzioni europee.
Meloni, tuttavia, sembra convinta del fatto che – fino a quando potrà contare sulla benevola protezione di Washington per la sua collocazione da ultrà occidentale nei molteplici conflitti aperti o potenziali dall’Europa orientale, al Medio Oriente fino a Taiwan – la sua posizione non rischia di essere esposta a eccessive pressioni esterne, se non quelle dovute alla crisi economica, più acuta in Italia che altrove, e alla diffidenza degli investitori internazionali. Non a caso, il quotidiano francese “Le Figaro” le ha recentemente attribuito “un anno di rivoluzione conservatrice senza fretta”, sostenendo che, dal punto di vista di chi guarda da oltre confine, Meloni “non preoccupa più”.
La realtà, vista da dentro, però è un filo meno dolce di quell’affettuoso ritratto. Già nel mese di settembre, il “Financial Times”, in una corrispondenza da Roma, aveva notato l’esaurimento della luna di miele tra la premier e la “Nazione”, per usare un termine a lei caro. “Meloni ha riconosciuto – scriveva il quotidiano anglonipponico – che le sue promesse di tagliare le tasse, aumentare le pensioni e aumentare la spesa sanitaria saranno difficili da mantenere nell’attuale rallentamento economico”. E con la sessione di bilancio alle porte, proprio le condizioni economiche del Paese e il fiorire di nuove tasse (sulla casa, sulle sigarette, su pannolini e assorbenti) potrebbero acuire la sensazione di una distanza crescente fra le promesse elettorali e la realtà.